Una curiosità

 

Citazione

Una curiosità
Il 6.10.1825 Paolina scriveva a Giacomo, allora a Bologna di informarsi su una certa Angelina, perché sua madre ne avrebbe avuto piacere. Il 10.10 Giacomo risponde che avrebbe fatto del tutto per sapere qualcosa, mentre il 4.12 fa sapere di averla incontrata. Chi era mai costei? Il 9 dicembre Giacomo scrive dettagliatamente di lei, assicurando che faceva vita comoda insieme al marito che pareva un signore. La corrispondenza continua con la famiglia a dimostrazione della grande familiarità che esisteva tra i Leopardi e Angelina.. Ma chi era mai coste? Non era altri che Angelina Jobbi, presente rtra le donne di servizio in casa di Giacomo negli anni 1805-1811; successivamente si trasferì a Bologna ma rimase l’antica familiarità e la presenza di Giacomo a Bologna la ravvivò assai, consentendo ad entrambi di scambiarsi piccoli favori, come quello di procurare a Paolina un certo velluto che nelle Marche non si trovava e che invece Angelina trovò a Bologna oppure quello che fece chiedere ad Angelina di farle procurare i certificati di battesimo dei suoi fratelli.. La relazione amichevole continuò fino al battesimo del figlio dell’Angelina che ebbe l’onore di avere come padrino per suo figlio proprio Giacomo Leopardi!! Secondo nome del bambino fu proprio Giacomo in onore del suo padrino. Angelina, da parte sua, si prese cura della biancheria di Giacomo e anche della sua salute, come faceva quando era bambino. Durante l’ultima sosta a Bologna (era diretto a Firenze) Giacomo non mancò di farle visita come si può lehggere dalla lettera del 4.5.1830. Sulla base di queste notizie ma precise, ricavate dall’Epistolario, se ne conclude che la casa di Angelina a Bologna costituì per il Nostro un luogo ospitale a cui fece ricorso per piccoli servizi ma soprattutto per godervi una calda e sincera amicizia unita da tanto affetto.

un convegno

Giacomo Leopardi e la percezione estetica del mondo”. Convegno della Deutschen Leopardi-Gesellschaft, col patrocinio del Comune di Recanati e del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Villa Vigoni, Loveno di Menaggio (Como), 7-9 ottobre 2007

Al Convegno saranno presentate diciotto relazioni, suddivise in tre sezioni tematiche.

7 ottobre. Seduta antimeridiana, con inizio alle ore 9

Apertura del Convegno

Estetica filosofica e percezione sensoriale

CESARE GALIMBERTI (Venezia)
Senso del nulla e senso della natura in alcuni momenti dell’opera poetica leopardiana

MARIO ANDREA RIGONI (Padova)
Gnoseologia come estetica: sul “sentire” in Leopardi

LUCIO FELICI (Milano)
Percepire senza conoscere: “Amore e Psiche” e la sapienza delle favole antiche

7 ottobre. Seduta pomeridiana, con inizio alle ore 15

ALESSANDRO COSTAZZA (Milano)
Sguardo estetico e poesia filosofica

FABIANA CACCIAPUOTI (Napoli)
Estetica come forma di conoscenza nei percorsi dello Zibaldone.

TITUS HEYDENREICH (Erlangen)
Cieco tuono, stridenti stelle: Synästhesien in der Lyrik Leopardis

EMILIO GIORDANO (Salerno)
La voce del Gallo silvestre

8 ottobre. Seduta antimeridiana, con inizio alle ore 9

Poesia e percezione

BARBARA KUHN (Konstanz)
“Ces redoutables puissances qu’on appelle le Sens et l’Imagination”: Die Pluralität der Welten im Dialog bei Fontenelle und Leopardi.

FRANCA JANOWSKI (Stuttgart)
Il piacere dell’immaginazione: visioni del sentire in Lorenzo Magalotti e Giacomo Leopardi

UTA DEGNER (Berlin)
Prägnante Bilder. Zum Phänomen der doppelten Wahrnehmung in der Lyrik Hölderlins und Leopardis

8 ottobre. Seduta pomeridiana, con inizio alle ore 15

FRANCO D’INTINO (Roma)
Elogio della voce: Amelio, la scrittura, i sensi

TATIANA CRIVELLI (Zürich)
Leopardi e la iatromeccanica dei sogni

RAOUL BRUNI (Padova)
La teoria leopardiana dell’ispirazione: aspetti romantici

VITO PUNZI (Ancona)
Drexel, Leibniz, Vogel, Leopardi. La scrittura zibaldonica tra percezione estetica e accumulo di sapere

9 ottobre. Seduta antimeridiana, con inizio alle ore 9

Poesia e antropologia

MANFRED LENTZEN (Münster)
Vicos Konzept der “sapienza poetica” und Leopardis Vorstellung des Poetischen

GEORGES GÜNTERT (Zürich)
Die Poetik der “ricordanza”: Entstehung, Anwendungsformen. Aufhebung

SEBASTIAN NEUMEISTER (Berlin)
Zwischen Orient und Ossian: Leopardi und die romantische Melancholie

9 ottobre Seduta pomeridiana, con inizio alle ore 15

KARL HEINZ BOHRE (Bielefeld)
Zeit und Zeitlichkeit zwischen Leopardi und Baudelaire

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Il libro che sto leggendo

Libri : Il signor figlio

Giacomo Leopardi e altri grandi della letteratura in questo romanzo che invita a riflettere su paternità e teologia di Andrea Monda

La storia non si fa con i «ma» e con i «se», ma la letteratura forse è basata proprio su queste due dimensioni, dell’ipotetica e dell’avversativa: i romanzi, anche quelli «realistici», sono sempre «utopia» e «ucronia», «altrove» e «in un altro tempo», sono sempre un’altra versione della storia. E allora chiediamoci, come implicitamente fa Alessandro Zaccuri all’inizio di questo intenso e raffinato romanzo (finalista al premio Campiello), cosa sarebbe successo se Leopardi (di cui ancora oggi si ignora la collocazione della tomba) invece di morire a Napoli per il colera, si fosse trasferito a vivere nella Londra di metà Ottocento. Non solo, e se avesse anche conosciuto John Kipling, padre del più famoso Rudyard, e Cécile Massiaen, poetessa e madre del compositore Olivier.

L’assetto del romanzo, sintetizzato così, può sembrare un po’ astruso, forse complicato, ma l’aspetto più sorprendente è che l’autore è riuscito a creare una storia credibile, così ben compaginata che ci si chiede quanto sia "costato" anche a livello di documentazione scrivere queste 300 pagine fitte di cultura, storia, umanità. E anche di spiritualità. C’è profondità in queste tre storie che si intrecciano, ci sono aperture vertiginose che spingono il lettore a riflettere in termini spirituali e religiosi oltre il «gioco» e gli «effetti letterari» ben organizzati da Zaccuri.

Sette anni fa, questo giovane e acuto giornalista e critico letterario, aveva pubblicato un saggio molto intrigante dal significativo titolo “Citazioni pericolose”, ora con questo romanzo sembra dare ragione al vecchio detto greco: «kalos kindinos, il pericolo è bello». Ne “Il signor figlio” non ci sono solo citazioni (peraltro molto dotte), ma anche tanto «pericolo», c’è tanta bellezza e verità, anche perché parlare di «figli» vuol dire parlare della più radicale verità dell’essere umano: non tutti gli uomini che nascono diventano genitori, ma tutti, proprio in quanto nascono, sono figli. E dalla paternità umana il passaggio alla paternità divina è breve e quasi automatico, soprattutto se ci si lascia ammaliare dalla prosa lucida di Zaccuri.

Viene quindi il sospetto che questo romanzo sia in realtà un trattato di teologia, e di teologia trinitaria, come la triplice diramazione della storia (che però dall’inizio alla fine continua a ruotare intorno al rapporto tra Giacomo Leopardi e suo padre Monaldo) facilmente suggerisce. Lo scrittore inglese Chesterton (che non ebbe figli e fu tra gli autori inglesi del XX secolo più multiformi e prolifici) rifletteva sul rapporto tra paternità naturale e paternità artistica, e Fellini definiva «figli» i suoi film che cominciavano a nascere al momento dell’ultimo ciak: sono riflessioni che vengono facilmente in mente leggendo queste pagine che costituiscono il «figlio» di Alessandro Zaccuri.

Alessandro Zaccuri, “Il signor figlio”, Mondadori, pagine 335, 17 euro

 

Un nuovo libro.

Data e ora di inserimento: (14-09-2007, 12:56:32)

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Leopardi scopre Galileo negli studi scientifici giovanili e lo tiene in
grande considerazione nella ‘Storia della Astronomia’ (1813).
L’apprezzamento dell’opera di Galilei è un filo conduttore della sua
maturazione filosofica e letteraria: Leopardi ne riconosce l’«efficacia
e scolpitezza evidente" (1818, lo definisce "forse il più gran fisico e
matematico del mondo" (1821)lo esalta per «magnanimità e di pensare e
di scrivere» (1827) e ancor più come «il primo riformatore della
filosofia e dello spirito umano» (1828). L’opera di Galilei risuona in
alcuni snodi teorici del pensiero di Leopardi: il problema del metodo
della conoscenza, il rapporto tra caso e progresso nella scienza, la
concezione “stratonica” del cosmo, la relazione tra conoscenza e
felicità, ragione e sentimento. Tuttavia tale centralità non traspare
nelle opere pubblicate, a eccezione dei diciassette brani della
‘Crestomazia della Prosa’(1827), sedici dei quali nella sezione della
‘Filosofia speculativa’ dove si ritrova la più alta sintonia con il
pensiero e la figura di Galilei, riflessa nel ritratto che Leopardi
avrebbe voluto dare di sé ai posteri. Il libro individua la presenza di
Galilei nelle letture leopardiane, negli scritti giovanili e nelle
opere edite e inedite, con un’attenzione particolare allo ‘Zibaldone’ e
alla’Crestomazia della Prosa’, ritrova un progressivo incremento di
interesse, saggia un confronto decisivo, riconosce in Galilei un
modello di stile e di pensiero, ma scopre anche perché Leopardi ha
difficoltà nell’affrontare la questione del processo allo scienziato
pisano e nel rendergli pubblicamente quel posto centrale nella cultura
italiana che privatamente riconosce. Emerge la sua scarsa propensione
alla matematica, la sua ritrosia a seguire gli ideali liberali, ma
anche un conflitto a distanza con il padre sulla legittimità del
sistema galileiano , e in fondo dell’accettazione o meno della
centralità della fede cristiana rispetto alle verità dei filosofi. Due
le appendici. La prima segue lo “sguardo sul cosmo” di Calvino, tra
Leopardi e Galileo; la seconda ripropone quel «librettino molto
importante» di «pensieri filosofici e belli» di Galilei che Leopardi
aveva trascelto per la Crestomazia, in quella che fu la prima antologia
di prose galileiane.

Gaspare Polizzi insegna Storia della Scienza all’Università di Firenze.
È studioso di storia del pensiero filosofico e scientifico, con
particolare riferimento alla filosofia e all’epistemologia francesi (H.
Poincaré, G. Bachelard, P. Valéry e M. Serres) e alla filosofia
naturale tra ’700 e ’800 (G. Leopardi). Tra le sue pubblicazioni in
volume si ricordano: ‘Scienza ed epistemiologia in Francia’
(1900-1970); ‘Forme di sapere e ipotesi di traduzione’ 1984; ‘Michel
Serres’1990; H. Poincarè, ‘Il valore della scienza’; ‘Leopardi e la
filosofia’ 2001; ‘Tra Bachelard e Serres’2003; Leopardi e “le ragioni
della verità”; ‘Scienze e filosofia della natura negli scritti
leopardiani’ 2003

In copertina: Vasilij Kandinskij, Accento in rosa1926, Parigi, Centre Georges Pompidou.

Blasucci e Binni

Riceviamo da Luigi Blasucci il suo bel volume di studi leopardiani Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, che nell’ultima sezione dedicata agli studi di Binni, Luporini, Timpanaro e Bollati ripropone il testo di un importante intervento del 1997: "I cinquant’anni della "Nuova poetica leopardiana" di Walter Binni". Lo riproduciamo, ringraziando l’autore.

I cinquant’anni della "Nuova poetica leopardiana" di Walter Binni (1) (pp. 255-269)

Nell’accingermi a parlare di Binni leopardista è vivo nella mia memoria il ricordo di tre anni fa, quando in questa stessa aula, presente l’autore, con gli amici Ghidetti e Ferroni presentammo le Lezioni leopardiane, ossia gli appunti dei vari corsi su Leopardi svolti da Binni tra Firenze e Roma negli anni 1964-67, amorosamente riordinati per la stampa in volume da Novella Bellucci(2). Ricordo ancora il sorriso affettuoso e malinconico con cui Binni ascoltò i nostri discorsi, ma anche la decisione con cui, nel suo intervento di chiusura, si rivolse agli studenti che gremivano l’aula, riproponendo con argomenti rinnovati l’attualità del modello leopardiano.
Facendo perno su quelle Lezioni, nella mia presentazione
(3) avevo tentato di ricostruire la parabola del leopardismo binniano, dal giovanile articolo del 1935, Linea e momenti della lirica leopardiana, vero incunabolo di quella che sarebbe stata l’interpretazione matura del poeta, sino al saggio La poesia di Leopardi negli anni napoletani, del 1980. In quello stesso intervento avevo notato che proprio di lì a due anni, ossia nel 1997, sarebbe ricorso il cinquantenario de La nuova poetica leopardiana, il libretto che dette l’avvio, è ormai constatazione storica, a un nuovo corso della critica su Leopardi. Il destino ha voluto che la scadenza di quel cinquantenario coincidesse con l’anno della scomparsa di Walter Binni. Proprio nel segno di questa doppia ricorrenza, vorrei ora proporre una riconsiderazione di quell’aurea operetta, fermandone alcuni punti essenziali e riguardandoli nella prospettiva della critica leopardiana successiva.
Quella che l’autore indicava come "nuova poetica" concerne, come tutti sanno, i canti fiorentini e napoletani, ossia le ultime due stagioni della poesia leopardiana. Ferma all’immagine di un Leopardi poeta melodico, realizzatosi nei soli "idilli", o meglio, nella sola dimensione "idillica", la critica sia crociana che ermetica, in questo alleate e convergenti, riconosceva in quell’ultima sezione dei Canti non più che qualche circoscritto episodio poetico, all’interno di contesti diffusamente oratori, riflessivi, polemici, descrittivi, insomma di tutto ciò che con terminologia crociana si definiva "non poesia". Non mancavano certo, da parte dei critici più dotati, tentativi di apertura a qualche aspetto meno codificato della poesia leopardiana. Trà di essi si può annoverare quel Mario Fubini che nell’introduzione al suo commento ai Canti, del 1930, dopo aver dato una caratterizzazione globale di quella poesia come libera e pura voce del sentimento, come registrazione di un "tempo dell’anima", in una nota a piè di pagina sentiva il bisogno di far posto, sia pur in modo dubitativo, a qualcosa che di quella poesia, soprattutto nella sua ultima fase, appariva irriducibile a una così. suggestiva e pianificante definizione.

La necessaria brevità di questo studio introduttivo – scriveva Fubini – non consente minute dimostrazioni, né consente di mettere in luce i diversi caratteri delle diverse "maniere" della poesia leopardiana. E bene però ricordare come lo stile leopardiano, quale abbiamo tentato di definire, si vada, modificando nei canti dell’ultimo periodo, quelli successivi all’edizione del ’31: ricompaiono in questi canti le forme letterarie eliminate nei precedenti come le similitudini […], si fanno per l’insinuarsi nella poesia leopardiana di note descrittive, drammatiche, polemiche, più complessi i periodi sintattici, si trasforma profondamente la metrica. Virtuosità dell’artista, capace ormai a dir "tutto", sviamento dovuto a contingenze pratiche; o avviamento a forme d’arte nuova? Gli ultimi canti del Leopardi ci lasciano a volta a volta queste differenti impressioni ma, pur sotto le forme in parte mutate, ci par di riascoltare il poeta di un giorno. Certo l’ "ultimo Leopardi" attende, dopo i molti studi già fatti, un nuovo attento studio, che ne metta in rilievo i peculiari caratteri(4).

Queste considerazioni oggi appaiono singolarmente presaghe; ma resta il fatto che il pur finissimo Fubini, con una dichiarazione quale: "sotto le forme in parte mutate, ci par di riascoltare il poeta di un giorno", aveva per conto suo chiuso il discorso, finendo con l’aderire a quell’atteggiamento di reductio ad unum che aveva caratterizzato e caratterizzerà ancora per un trentennio la critica leopardiana.
Col primo capitolo della Nuova poetica, intitolato L’ultimo periodo della lirica leopardiana, Binni parte proprio dal rifiuto di quella reductio. Secondo il critico, una considerazione degli ultimi Canti che si ispiri ancora al criterio "idillico" sarà inevitabilmente frammentaria, se non proprio negativa, per tutte le parti di quella produzione che non sono riducibili alla dimensione "idillica". Quindi l’istanza prima del critico dovrà consistere nel cogliere, all’interno di quei testi, ciò che è la loro legge poetica immanente.

Questo […] è il punto dolente del problema leopardiano – scrive Binni -: chi giunge ai nuovi canti dopo la lettura dei grandi idilli si trova disorientato difronte a così grande diversità e questa impressione si cambia facilmente in giudizio comparativo ed in svalutazione delle nuove poesie considerate come deviazione dal motivo trionfante della poesia idillica. E poiché non si approfondisce di solito se non episodicamente e psicologicamente la situazione del nuovo Leopardi e non la si vede in funzione di poetica, è facile assumere la posizione idillica come l’unica posizione veramente leopardiana ed ogni divergenza di tono come infiacchimento e turbamento d’ispirazione(5).

Un’esemplificazione efficace delle due dimensioni in questione, quella "idillica" e quella dei "nuovi canti", può esser data dagli attacchi, rispettivamente, della Sera del dì di festa e del Pensiero dominante:

Basta avvicinare questi due inizi famosi […] per sentite la grandissima diversità fra due espressioni intensamente leopardiane, ma ispirate nella linea divergente di due diverse poetiche. Il primo inizio presuppone una poetica idillica, tesa ad armonizzare, a pausare in distensioni, in serenità conclusiva e quindi in ritmi larghi e senza scosse, fluenti, orizzontali. L’altro è sostenuto da una poetica "eroica" in cui la personalità del poeta batte con energia aggressiva e tende a presentarsi integralmente nella sua affermazione di passione in forme risolute e impetuose, staccate in potenti blocchi di cui sono simbolo i due aggettivi che guidano questo tema musicale senza riposo di verbo, di descrizione, di colore, e in cui le parole sembrano legate per una comune energia esplosiva e l’ultimo verso accentua l’impeto e la solennità assorta con la sua scandita impostazione(6).

In entrambi i casi, come si vede, l’idea di una legge compositiva immanente al testo poetico si precisa col nome di "poetica": concetto capitale, come sappiamo, nella metodologia e nella critica di Binni, variamente elaborato e affinato nel corso degli anni, dal giovanile saggiò La poetica del decandentismo italiano (1936) al coevo (rispetto al libretto leopardiano) Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947) fino alla sistemazione teorica esplicita contenuta nel libro Poetica, critica e storia letteraria, del 1963. Non è qui il caso di entrar nel merito della questione teorica. Diremo solo che il concetto binniano di poetica tende a specificarsi nella riflessione e nella stessa prassi critica dell’autore secondo due direzioni: l’una che chiamerò sincronica, l’altra diacronica (Binni naturalmente non avrebbe usato questi due termini saussuriani). Sotto l’aspetto sincronico, la poetica è appunto la legge artistica immanente alla costruzione di un testo; sotto l’aspetto diacronico, la poetica è il convogliamento (Binni userebbe il termine "commutazione") in senso artistico della personale esperienza esistenziale, politico-sociale, culturale, letteraria di un autore. Mentre la prima definizione ci presenta dunque la poetica come un risultato, la seconda ce la presenta come un processo.
Nella prima accezione il concetto di poetica serve a Binni, come s’è visto, per impostare il problema della specificità dell’ultimo Leopardi, ossia di una poesia che prima di essere accolta o rifiutata, deve essere valutata nelle sue leggi intrinseche; nel secondo capitolo, intitolato Il Leopardi del!’esperienza di sé, entra in gioco la seconda accezione di poetica, quella diacronica o dinamica. Qui il critico prende in considerazione l’esperienza che Leopardi compie quando definitivamente da Recanati nel 1830 e si stabilisce a Firenze. Non è un capitolo di pura biografia privata, ma una fase tutta nuova nella storia della personalità leopardiana, caratterizzata dai rapporti diretti con gli altri, siano essi affettivi, sociali o intellettuali. A Firenze c’è tutto un fervore culturale, ci sono i collaboratori dell’"Antologia" coi loro programmi ispirati a un liberalismo moderato d’impronta spiritualistica, sia laica che religiosa. Leopardi è costretto a onfrontare la sua Weltanschauung di matrice sensistico-materialistica, maturatasi nella solitudine di Recanati, con quelle ideologie; e questo confronto si configura a un certo punto come un vero e proprio scontro. All’interno di questa esperienza dell’altro da sé, che alimenta la conoscenza di sé, è dato da Binni il dovuto rilievo all’episodio dell’amore per la Fanny Targioni Tozzetti, che è poi l’esperienza vitale che è alla base dei nuovi canti fiorentini:

Poco interessa accertare – scrive Binni – fin dove l’"inganno" giungesse, e quanto poco corrispondesse Fanny al fantasma poetico che il Leopardi costruì. Ci interessa invece assicurare alla nuova poetica una riprova di concretezza umana, di maggiore prepotenza di un "presente" che è, all’inizio del nuovo periodo, un formidabile sentimento d’amore. Il tono di questo amore, l’impegno di questa esperienza personale, non più giovanile e sognata, è il tono del nuovo periodo che non abbandona la sua forza e i suoi caratteri solo con la fine dell’amore, ma si prolunga nella forza omogenea, nell’impegno omogeneo della sua delusione e della protesta dei successivi momenti vitali(7).

Non seguiremo l’autore in questa e nelle successive tappe della sua analisi ricostruttiva, ma lo attenderemo a tre decisivi appuntamenti di lettura, dove il concetto di poetica è applicato nell’accezione che a noi appare più funzionale e meno suscettibile di riserve, cioè come legge compositiva immanente al testo, come logica poetica del testo. Il primo di questi traguardi è costituito dall’analisi del Penstiero dominante, uno del vertici della "nuova poetica". Il richiamo a un pensiero zibaldoniano del 1819 sull’amore ("Quando l’uomo concepisce amore, tutto il mondo si dilegua agli occhi suoi […]") serve a Binni non tanto come punto di partenza per una ricostruzione genetica quanto come termine di confronto fra due diverse impostazioni tonali:

Questo pensiero dello Zibaldone del ’19 […] mentre indica la sensibilità, l’atteggiamento amoroso del Leopardi comune alla topica del Pensiero dominante, serve bene a distinguere un tono minuto nutrito da sensistiche indagini sul piacere e quello più alto e romantico con cui certi laci communes leopardiani vengono ripresi e sostanzialmente rinnovati nel nuovo clima spirituale e nella nuova poetica che trova nei primi versi il suo capolavoro più indiscutibile: "Dolcissimo, possente/ dominator di mia profonda mente;/ terribile, ma caro/ dono del ciel […]". Qui, lontano dal più tenue alone giovanile, un sentimento sa farsi centro di una poesia liberandosi da ogni bisogno di appoggio paesistico o di meditazione risolta in canto ed indicandosi quasi polemicamente come ossessione altissima con cui la personalità del poeta viene ad identificarsi in una adorazione dell’ideale che è insieme affermazione del proprio mondo interiore(8).

Anche in questo caso il richiamo retrospettivo a un critico di generosa apertura mentale, nella fattispecie Luigi Russo, maestro venerato da Binni, meglio ancora che il confronto con un lettore intellettualmente più distante quale Giuseppe De Robertis, direttamente chiamato in causa dall’autore della Nuova poetica e decisamente negativo sul valore della lirica ("la musica […] è secca e corta, non variata con la tenerezza propria del Leopardi"(9)), potrà dar la misura del salto qualitativo compiuto dall’interpretazione binniana del pensiero dominante. Commentando il finale dell’ottava strofa ("e il vario volgo/ a’ bei pensieri infesto,/ e degno tuo disprezzator, calpesto"), dove il discorso amoroso si allarga alla sfera etico-ideologica, Russo annotava:

Senti sempre l’accento polemico di tutte queste strofi per cui il p. dimentica di ritrarre la dolcezza peregrina d’amore che sola veramente poteva riunir materia di alta poesia, e si svia verso immagini agonistiche. È questa una canzone eroica più che una canzone amorosa, come quella Alla sua donna; e l’ispirazione agonistica riesce più a una forma di oratoria, come nel Bruto minore, che a poesia vera e propria. Per la poesia bisogna che l’anima pur si allenti(10).

Anche qui si noterà come il critico abbia sfiorato, si direbbe preterintenzionalmente, una corretta definizione della lirica ("È questa una canzone eroica più che una canzone amorosa"), ma come poi un’idea programmatica, si direbbe aprioristica del tema (amore = dolcezza), abbia finito col sovrapporsi alla logica poetica del testo. Quella logica poetica che è invece ben presente nell’analisi di Binni, e che proprio sulle strofe censurate dal Russo detta al giovane critico questi rilievi del tutto interni alla loro costruzione:

Due grandi strofe (7a e 8a) propongono un nuovo tema: il disprezzo della morte e delle speranze stolte degli uomini. "Giammai", "sempre": due avverbi che tagliano una dimensione e imprimono un uguale moto perentorio alle due frasi che terminano ugualmente con l’espressione verbale verso cui salgono come a proporre un tema che viene poi svolto con i due motivi iniziati dai più forti ed attuali "Oggi", "Or", il primo più breve e il secondo più complesso e articolato, con tipiche conclusioni che con la loro energia attraggono in un moto ascendente le frasi precedenti(11).

Questo riconoscimento di un’attitudine "energica", frutto di una visione dell’amore-valore ricca di connotazioni etiche, distingue per un altro verso la valutazione binniana del Pensiero da quella ugualmente positiva di un altro lettore citato da Binni, Francesco Flora, che parla in proposito di un canto "rapito e tenero", di una "vocalità dell’anima che si rifrange in se medesima e non chiede eco alla esterna natura", spostando il valore della lirica, per adoperare parole dello stesso Binni, "su di un piano non suo, troppo danzante e canoro, e tremulo ed estatico"(12).

La seconda lettura esemplare su cui vorremmo fermarci è quella del canto A se stesso. Pur con qualche voce più discorde, tra cui, questa volta, quella di De Robertis ("che coerenza di linguaggio, di ritmo; di accento"(13)) e nuovamente quella di Flora ("uno dei canti più distaccati e più puri", "una passione redenta e non più sofferta"(14)) la tradizione critica negativa era qui ugualmente imponente. Ci basterà allegare questi tre giudizi successivi. Fubini:

Talvolta […], nella poesia A se stesso, per esempio, le parole cadono gravi e senza eco, le pause non si riempiono di trepida commozione, ma fanno palese quel tragico silenzio, da cui quei rotti accenti si levano: non sono mutate le preferenze stilistiche del Leopardi, ma le sue parole hanno perduto la loro lirica leggerezza (15).

Croce:

Perché il breve canto A se stesso del Leopardi, pur così chiaro alla mia mente, non mi si amplia poeticamente nell’anima? Vedo in esso il Leopardi in uno dei suoi momenti di estrema angoscia e desolazione, quando non trova più sulla terra niente a cui afferrarsi per non affogare nel tedio disperato, rifarsi presenti, poiché altro non può, i concetti della sua filosofia, riconfermarli e trarne il conseguente atteggiamento volitivo formulando l’ultimo e definitivo suo proposito e programma di vita […](16).

Russo:

Son d’accordo col Flora che questa così espressa non possa dirsi "una passione sofferta e non redenta". È redenta, ma in un programma volitivo, non in una visione poetica […]. Il Leopardi non ha avuto, nel comporlo neppur la gioia del canto: rinunziando a tutto, ha rinunziato questa volta alla poesia propriamente detta, alle parole, alle immagini, ai ritmi poetici(17).

Davanti a pronunciamenti come questi, ma anche davanti all’adesione "sensibilistica" e un po’ irrelata dei ricordati De Robertis e Flora, misuriamo l’efficacia di una impostazione di lettura fondata sul riconoscimento di una dimensione tematica, ideologica, stilistica altra da quella idillica, energica e assertiva nei suoi essenziali connotati. Il discorso binniano su A se stesso segue a quello sul Consalvo e prende le mosse proprio da un confronto per opposizione:

Mentre nel Consalvo ogni parola, ogni mossa erano pregne di riferimenti ad un’avventura sognata, qui tutto si riduce ad un distacco da ogni forma di sogno con una sobrietà che poté apparire alla maggioranza dei critici prosastica o epigrafica; raggelata e scheletrica. In realtà manca quel gelo che si fa ironico in tanto Leopardi delle Operette e in certi momenti dei Canti, e c’è al suo posto un tono assoluto e interiormente fremente. Il prezzo della nuova poetica per il quadretto, per il paragone immaginoso, per la cadenza sensuosa e cantata, qui si è intensificato e si è accordato con una forza di concentrazione mai ottenuta dal Leopardi con tanta violenza(18).

Nell’esame testuale che segue, più che in qualsiasi altra analisi offertaci dal libro, viene allo scoperto, si direbbe per necessità intrinseca all’oggetto stesso, alla sua ardita costruzione formale, la dimensione metrico-linguistica, ad attestare nell’autore la presenza di una competenza di solito dissimulata, anzi talvolta quasi asceticamente messa tra parentesi, ma pur segretamente attiva nelle sue analisi critiche:

Le brevissime frasi non sono rapprese e scarnificate, ma rappresentano forti slanci contenuti da una forza stilistica superiore, unificati in una linea non adagiata che li salva da una prosastica ed epigrafica solitudine […]. Il ritmo nettamente ascendente in tutti i membri, indica la natura non statica: di movimento contenuto, e le spezzature che non lasciano intatto. quasi nessun verso (e per esempio al verso 10 la "e" congiuntiva è più che altro una pausa accentuata dopo il punto e virgola) sono slanciate da alcuni poderosi "enjambements" tra cui spicca il larghissimo; "assai/ palpitasti". Tanto che il poeta sembra volere colmare gli spazi traverso e verso e formare dei versi ideali oltre la misura reale dei settenari e degli endecasillabi da spezzare poi in una unica linea a cui collaborano con energia iniziale e con tensione estrema mosse ripetute sempre più intense: l’esempio più ardito della nuova poetica, l’antiidillio per eccellenza(19).

Un’analisi così articolata e insieme stretta al corpo metrico-verbale del testo non è da stupire che abbia lasciato il segno anche in un lettore-filologo come Angelo Monteverdi, che qualche anno dopo riproporrà sul medesimo oggetto un discorso rigorosamente tecnico-metrico, dove le pagine di Binni saranno richiamate con esplicito consenso critico(20).

Il terzo vertice della "nuova poetica" è per Binni La ginestra. Caro ai positivisti di fine secolo, che trovavano consono alla loro ideologia il materialismo lucreziano che vi si dispiega, il componimento era apparso ai lettori posteriori, soprattutto di marca crociana,come una lunga professione ideologico-polemica interrotta da squarci di purissima poesia: un testo esemplare, dunque, per verificare il criterio di "poesia e non poesia". Ecco ad esempio il giudizio di Flora:

Nessuno dei suoi componimenti di poesia o prosa lo mostra intero come questo che è alto e fertile, sebbene non in tutto eguale e non in tutto poetico. Aveva egli sentito il rimprovero di cantare il suo dolore e non già i "bisogni del secol nostro": volle rompere il cerchio, non più con una apologia del suo sistema quale è la Palinodia, ma con un canto di alto respiro sociale, ove si sentisse l’austera morale della sua dolorosa concezione; la quale persuade gli uomini ad aiutarsi per meglio condurre questa misera vita e così opporsi alla nemica natura. Per questa origine polemica […] la Ginestra, nella quale indicibili moti poetici prevalgono alla fine su ogni schema, si svolge tuttavia sopra un ragionamento, come una orazione divisa in varie parti(21).

Più puntuali e drastiche le distinzioni di Luigi Russo, che nella sua ricostruzione della "carriera poetica" leopardiana aveva pur saputo individuare una componente agonistica, anche se, come s’è visto per il Pensiero dominante, cedendo a un’istanza melodica, il critico non aveva voluto riconoscere a quella dimensione un suo statuto poetico:

Bisognerà mettere da parte la "musicale architettura" del componimento, e venirvi distinguendo quelle che sono le parti poetiche e le oratorio-polemiche e le prosastiche. Fino al verso 36 avvertiamo la modulazione profonda dell’idillio cosmico, fino alla nota del fior gentil, che quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto consola. Ma al verso 37 (A queste piagge Venga colui che d’esaltar con lode Il nostro stato ha in uso), si riprende la polemica della Palinodia e dei Nuovi credenti, fino al verso 157 dove si deridono ancora una volta le superbe fole degli uomini. Poi la voce un’altra volta si addolcisce nella visione di queste rive, Che, desolate, a bruno, Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, dove si mescola la tenera poesia del deserto e della desolazione(22).

L’accenno polemico alla "musicale architettura" del canto si richiama implicitamente al giudizio positivo datone dal De Robertis nella nota introduttiva al testo ("Musicale architettura!: questo è veramente [segno e)’ accento di tutto il canto, il segreto respiro di una sua complicata struttura"(23)), espressione di una "sensibilità" giunta, si direbbe, ai limiti delle sue capacità di apertura, e di fatto in contraddizione col giudizio di tutt’altro segno fornito dal critico nella sua Introduzione al commento: un giudizio fondato su una comparazione svalutativa con gli amatissimi "idilli-miti" della Quiete e del Sabato:

La Ginestra si potrebbe, nella sua struttura, definire la Quiete dopo la le tempesta o il Sabato del villaggio rovesciati; e se fosse una semplice osservazione formale, non avrebbe che un valore limitato, Ma sta di fatto che mentre in quegli idilli la conclusione, sia pure a modo di morale, nasce spontaneamente e felicemente corretta da un’ironia pacata anche se non pacifica […], la prima parte della Ginestra, condotta più a termine di logica che per una ragione interiore e per necessità lirica, sforza con una continua deformazione di linguaggio il pensiero, troppo ragionato, rigoroso e presente, per dar luogo all’ironia; troppo conseguente, meticoloso e dimostrativo, per render plausibile l’umanitarismo di certe proposizioni; troppo strettamente legato e tiranno, perché la seconda parte, più propriamente rappresentativa, si potesse muovere con libertà […](25).

L’analisi binniana della Ginestra occupa l’ultimo capitolo della sua monografia ed è preceduta da tre capitoli dedicati rispettivamente alle due canzoni "sepolcrali", ai due componimenti satirici Palinodia e nuovi credenti, e ai Paralipomeni della Batracomiomachia, considerati come componimenti a loro modo preparatori della Ginestra: la quale viene così ad assumere il ruolo di punto d’arrivo o, se si preferisce, di culmine dell’intera produzione napoletana e, implicitamente, della stessa "nuova poetica". Sin dalle prime battute il critico punta sull’unità del componimento, ossia sulla convergenza poetica di evocazione e riflessione:

Altro che stanca meditazione poetica come di solito si intende la Ginestra in cui, secondo la critica di origine crociana, si alternerebbero brani lirici (quelli che più arieggiano l’idillio) a brani oratori e polemici! Invece delle giustificazioni di tipo lucreziano e delle ammirazioni nettamente contenutistiche, occorre, sulla strada già percorsa a proposito degli altri canti del periodo, accertare una poetica che non chiede distese esposizioni, non descrittivismo lineare, non conclusioni di colorita armonia […]. Una poetica invece che attira l’esigenza di una forma unitaria, esplosiva, in cui verità posseduta e personalità creatrice vivono nello stesso accento, nella stessa cadenza musicale e cercano le misure energiche di una poesia a suo modo iniziatica e rinnovatrice alla cui tensione bisogna giungere dall’intimo dell’esperienza leopardiana e della sua lenta preparazione stilistica nell’ambito della nuova poetica25.

Nell’esemplificazione di questa unità Binni cita la celebre strofa ("Sovente in queste rive […]"):

Per spiegarci praticamente, indicherei la strofa quarta in cui passa dalla contemplazione del firmamento (posizione apparentemente idillica) alla constatazione della miseria dell’uomo e delle sua stolta superbia (motivo apparentemente discorsivo): ebbene un esame spregiudicato e "storico" porta alla conclusione che c’è un unico tono concretato in due slanci ampi, crescenti con lo stesso ritmo e pervasi dalla stessa tensione dimostrativa, non contemplativa, ma affermativa ed evangelica(26).

All’interno di questa visione unitaria del componimento il critico tiene a sottolinearne le tonalità "scure e scabre", presenti tanto nelle parti riflessive quanto in quelle paesistiche, dove l’idillio dell’"odorata ginestra" e del "purissimo azzurro" rimane del tutto funzionale a un contrappunto evocativo in cui dominano le note desolate di una natura desertica, telluricamente sconvolta (la "mesta landa", il "flutto indurato"), affidate a un linguaggio di inaudita potenza non alieno da punte "petrose":

Quanto lontani dal mondo idillico, dalle sue immagini, dalle sue cadenze, in una poesia che scava un paesaggio come questo di Pompei o della campagna delle ginestre in cui entità poetiche di un’allucinante oggettività creano suggestioni di musica spietata e possente, lontanissima da quell’intonazione di musica-immagine di origine tassesca-arcadica da cui l’idillio leopardiano[…] trae le sue origini letterarie […]. C’è semmai l’eco di isolati tentativi preromantici […], preziosi indici di una poetica suggestione per isolata ed assoluta evidenza, per presentazione fulminea dal profondo, di entità che non si sciolgono in alone musicale, ma resistono in una presenza poetica di enorme efficacia nella sua nudità, nel suo vivere perentorio(27).

Non è indebito ravvisare proprio in queste pagine sulla Ginestra nella difesa dì un discorso "totale" e nella predilezione per una dimensione espressiva risentita, antimelodica, un documento di che potremmo definire la "poetica" binniana, tanto per ritorcere sul critico il suo stesso concetto euristico: una poetica critica da rigurdarsi come l’espressione di una sensibilità personale, ma anche un frutto maturato nel clima storico-letterario compreso fra gli anni trenta e quaranta. Ci soccorre a proposito lo stesso Binni, con un richiamo alla contemporaneità offerto nel bel mezzo dell’ultima pagina citata; un richiamo che, per quanto avanzato con doverosa cautela, non può non risultare rivelatore per ciò che riguarda le matrici storiche di un gusto:

Non si pensi che un lettore di Montale riveda Leopardi attraverso la poetica di Occasioni! , ma anche un simile accenno se limitato ragionevolmente può servire a individuare l’ultima precisazione di questo nuovo Leopardi così lontano dalla ricerca del vago, dell’indefinito(28).

Il fatto è che senza la presenza, appunto, di una nuova sensibilità, postsimbolistica e postermetica, affiatata con le voci più alte della poesia contemporanea soprattutto nel versante "metafisico", tra Eliot e Montale, coi loro esemplari di una poesia della desolazione e dell’aridità, e la loro ricerca di tonalità antielegiache, dissonanti e insieme ricche di espressività, l’idea binniana di una nuova poetica leopardiana diventa meno concepibile. Quella che sinora ho presentato come una corretta operazione metodologica nell’interpretazione della poesia leopardiana è dunque il frutto, insieme, di un’acuta sensibilità individuale e di un’ acquisizione storica del gusto poetico. Di qui le varie renitenze dei critici più anziani ad accettare fino in fondo i corollari della Nuova poetica leopardiana. Diciamo la verità: Montale non era il poeta, non dico della generazione di Croce, ma nemmeno di quella di De Robertis, di Russo, di Fubini, di Sapegno, nonostante le loro professioni di stima verso l’autore degli Ossi di seppia; era il poeta, bensì, di Binni e di Contini, che mi piace qui accomunare in un medesimo riconoscimento storico. E del resto, da parte dello stesso Binni non è mancata a suo tempo un’ammissione esplicita dell’importanza dell’ esperienza montaliana per la formazione del suo gusto di critico, e specificamente per la comprensione dell’ultima poesia leopardiana. Mi riferisco alla "testimonianza" intitolata Montale nella mia esperienza della poesia, apparsa nel numero di "Letteratura" dedicato a Montale per i suoi settant’ anni, dove tra l’altro il critico dichiara:

Non a caso (per stare più direttamente alla mia vocazione e attività critica fra la lettura di Ossi di seppia e quella di Occasioni si situano, non solo cronologicamente, le mie prime esperienze di critico: la Poetica del decadentismo e soprattutto la mia prima interpretazione del Leopardi che, sin dalla sua impostazione in un saggio del ’35, si avvalse certo della adiuvante esperienza montaliana (più tardi esplicitamente ricordata nel volume del ’47) a rompere l’immagine leopardiana del Croce, del rondismo e della "poesia pura", attraverso la valutazione positiva dell’ultimo Leopardi e soprattutto della Ginestra, e non la implicazione di una linea di possibile tradizione leopardiana assai diversa da quella fatta culminare nel canto e nel mito rasserenatore del dolore, di tipo ungarettiano(29).

La lezione binniana della Nuova poetica fu ben ricevuta, viceversa dalle generazioni più giovani e il leopardismo successivo ne sarà improntato in modo determinante. Certo, la Nuova poetica nella sua appassionata unilateralità (ma senza unilateralità nessuna idea valida si afferma) lasciava dei compiti aperti. Questi compiti si possono così riassumere: a) precisare il concetto di poetica "idillica" distinguendone all’interno le varie fasi; b) riconoscere a sua volta all’ "idillio" una carica conoscitiva, per non ridurlo a una pura melodicità di tipo arcadico; c) individuare altre poetiche diverse dalla "idillica" e comunque antecedenti alla "nuova poetica"; d) articolare la stessa nozione di "nuova poetica" secondo precise scansioni interne, tali da far posto anche a composizioni ritenute manchevoli dall’ autore della Nuova poetica in quanto meno segnate da tonalità energiche ed eroiche, come le due "sepolcrali" e lo stesso Tramonto della luna.
Ma il primo ad essere consapevole di questi compiti fu lo stesso Binni: i suoi lavori leopardiani successivi, da La poesia eroica di Giacomo Leopardi (1960)
(30) ai ricordati corsi raccolti nelle Lezioni leopardiane, furono difatti intesi a colmare alcuni di quei vuoti, a ricostruire l’intero percorso della "carriera poetica" leopardiana. Questa operazione fu portata a termine nel saggio introduttivo ai due volumi di Tutte le opere leopardiane(31), intitolato Leopardi poeta delle generose illusioni e dell’eroica persuasione (poi intitolato La protesta di Leopardi nel volume omonimo(32)), dove la poesia leopardiana veniva ripercorsa nelle sue varie fasi, ciascuna valutata iuxta propria principia, e tutte comunque contraddistinte, sia pur in diversa misura, dalla convergenza di lucidità intellettuale e di tensione eroica. Nella presenza del secondo termine di questo binomio è da riconoscere l’eredità specifica della Nuova poetica e insieme la cifra personale dell’interpretazione binniana di Leopardi.
Quest’ultima constatazione ci suggerisce una considerazione conclusiva sul leopardismo binniano. Leopardi fu per il nostro critico, oltre che un grande poeta, anche un modello di vita intellettuale e morale, una delle vette dell’umana grandezza e dignità. All’esempio leopardiano Walter Binni non ha mai cessato di richiamarsi nei suoi discorsi d’ispirazione etica e civile. Il fatto notabile è che tale consonanza umana ed etica non si sia risolta né in un culto indistinto, né in valutazioni oscillanti dell’opera (come avvenne invece nel grande De Sanctis, che amò Leopardi per tutta la vita senza mai riuscire a metterlo bene a fuoco
(33)), ma abbia prodotto interpretazioni di grande originalità e vigore: un caso esemplare, nella storia della critica letteraria, di alleanza fra amore e intelligenza.

(1998)

NOTE

(1) È il testo (rivisto e con le note aggiunte) di una relazione tenuta il 27 novembre 1998 all’Università di Roma "La Sapienza", nel corso di una giornata di studio dedicata all’opera di W. Binni.
(2) BINNI, Lezioni leopardiane, a c. di N. Bellucci con la collaborazione di M. Dondero, cit.
(3) Pubblicata poi col titolo La lezione leopardiana di Walter Binni in "La rassegna della letteratura italiana", XCIX (1995), pp. 111-117; ristampata in BLASUCCI, l tempi dei "Canti" , cit., pp. 243-255.
(4) LEOPARDI, Canti, con introduzione e commento di M. Fubini, ed. rifatta con la collaborazione di E. Bigi, cit., pp. 15-16, nota 26.
(5) BINNI, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947, p. 4. (Col testo sostanzialmente immutato, l’opera ha avuto altre quattro ristampe, tutte dal medesimo editore: 1962, ,1984, 1997).
(6) Ivi, pp. 2-3.
(7) Ivi, pp. 19-20.
(8) Ivi, pp. 34-35.
(9) LEOPARDI, Canti,a c. di G. e D. De Roberris,cit., p. 352.
(10) G. Leopardi, I canti, a c. di L. Russo, Firenze, Sansoni, 1945, p. 310, nota 68.
(11) Ivi, p. 44.
(12) Ivi, p. 37. Il giudizio di Flora in G. LEOPARI, Canti con una scelta di prose, a c. di F. Flora, cit., p. 37.
(13) LEOPARDI, Canti, a c. di G. e D. De Robertis, cit., p. 381. Merito specifico di G. De Robertis è quello di aver individuato la tripartizione metrico-tematica della lirica, sviluppata poi nell’analisi del Monteverdi.
(14) LEOPARDI, Canti, cit., p. 326. Particolarmente suggestivi risultano qui alcuni rilievi formali, ispirati soprattutto alla tecnica musicale: "Questi settenari ed endecasillabi rotti, con pause lunghe o rapidissime, con periodi che hanno la vibrazione di accordi staccati ma intensi, oppure appena percossi nell’aria vocale, con un moto singhiozzante talvolta, che oggi si direbbe sincopato […]".
(15) LEOPARDI, Canti, cit., p. 15.
(16) B. CROCE, Il canto "A se stesso" e un’ode tedesca del seicento, in ID., Poesia antIca e moderna, Bari, Laterza, 1941, p. 379.
(17) LEOPARDI, I canti, cit., p. 331.
(18) BINNI, La nuova poetica leopardiana, cit., p. 91.
(19) Ivi, pp. 91-92.
(20) A. MONTEVERDI, Scomposizione del canto "A se stesso" (1965), in ID., Frammenti critici leopardiani, Napoli, ESI, 1967, pp. 123-136.
(21) LEOPARDI, Canti, cit., p. 375.
(22) Leopardi, I canti, cit., p. 373.
(23) LEOPARDI, Canti, cit., p. 453.
(24) Ivi, p. XXI. Sulla disparità fra i due giudizi derobertisiani intorno alla Ginestra ha già richiamato l’attenzione S. TIMPANARO: cfr. Binni e Leopardi, in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nel!’opera di Walter Binni, Roma, Bonacci, 1985, p. 420.
(25) BINNI, La nuova poetica leopardiana, cit., pp. 169-170.
(26) Ivi, p. 177.
(27) Ivi, pp. 181-182.
(28) Ivi, p. 182.
(29) W. Binni, Montale nella mia esperienza della poesia, in "Letteratura", XXX, 1966, n. 79-81. Lo scritto fu poi riprodotto nel numero montaliano della "Rassegna della letteratura italiana" (70, 1966, pp. 244-245), quindi incluso in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1969 (da cui ricavo la citazione: pp. 344-345). Sul "montalismo" di Binni si veda G. MANACORDA, Binni e Montale, in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nell’opera di WalterBinni, cit., pp. 521-528.
(30) Ora in BINNI, La protesta di Leopardi, cit., pp. 237-263.
(31) BINNI, Leopardi poeta delle generose illusioni, cito (introduzione a Leopardi, Tutte le opere, a c. di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, I, cit., 1969).
(32) BINNI, La protesta di Leopardi, cit.
(33) Si legga quanto osserva Timpanaro a proposito del saggio desanctisiano su Schopenhauer Leopardi: "Tuttora ammirevole e attuale è la stroncatura di Schopenhauer; troppo "risorgimentale", addirittura fuorviante, la rivendicazione di Leopardi, che, del resto, De Sanctis amò ma non comprese quasi affatto" (Antileopardiani e neomoderati, cit, p. 153).

L’infinito

 

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Il pastore

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CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA   

  Fu composto tra il 1829 e il 1830, e fu pubblicato per la prima volta nei Canti del 1831. L’idea del canto fu suggerita a Leopardi da un articolo del “Journals des savants” , da cui apprendeva che i pastori nomadi dell’Asia centrale trascorrevano le notti seduti su di una pietra a guardare la luna e a improvvisare parole tristissime su arie egualmente tristi.

Il poeta non parla in prima persona, ma le parole sono messe in bocca ad un uomo primitivo, semplice ed ingenuo. Nella prima fase del suo pensiero, detto pessimismo storico, Leopardi riteneva i primitivi più vicini alla natura, inconsapevoli della verità e quindi più felici dell’uomo moderno. Qui invece l’uomo primitivo è filosofo come gli uomini civilizzati, e sente fortemente la propria infelicità.

Le domande che il pastore si pone sono le stesse che si pone Leopardi (chi sono, perché sono, qual è la ragione della mia vita e dell’universo).

Sul piano concettuale questo è lo svolgimento del canto:

la constatazione della nostra assoluta ignoranza del perché della vita, congiunta alla certezza che essa è dolore e termina nella morte e nel nulla, portano alla conclusione che la vita è male. Nasce di qui il sentimento della noia, riflesso in questa scoperta vanità. La bellezza del canto non consiste nei singoli ragionamenti, ma nel senso sgomento del nulla e dell’angoscia dell’uomo, sperduto in un universo incomprensibile e sterminato. Il pastore è l’uomo, nel suo vano e monotono peregrinare terreno, disperatamente solo nel deserto del mondo. La luna, bella e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra suggerirci una promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua bellezza,e, d’altra parte, osserva impassibile e muta il nostro destino. Essa è l’interlocutore verso il quale il pastore rivolge i suoi lamenti, pur sapendo che non avrà mai risposta. La luna è l’infinito, l’eterno e l’immortale, è insomma quello che un uomo non può essere.
 Il pastore vede la luna simile a se, alza gli occhi e cerca di abbracciarla, di fondersi con lei, ma ciò è impossibile e i due restano inesorabilmente distaccati, come due magneti vicini che si attraggono. Egli simboleggia lo spaurirsi dell’uomo davanti all’universo, del quale si sente parte ma che invano cerca di capire.
Il pastore è anche il simbolo della prigionia della vita, e del disagio che si prova nel non poter far nulla per rompere la sua monotonia.


Con il termine PASTORE si vogliono quindi indicare tutte quelle paure e quelle insicurezze tipicamente umane.

La Luna, che per il Pastore è la vita (ma anche la singola giornata) è ripetitiva; ha una fase iniziale, una centrale e infine una fase finale.

POESIA

Metro: sei strofe libere di endecasillabi e settenari variamente alternati; tutte le strofe presentano rime al mezzo (soprattutto la quarta) e si chiudono con la medesima rima in -ale.

 È indubbiamente uno dei più bei canti scritti dal Leopardi. In esso troviamo tutta la forza della infelicità che da uno stato sentimentale di ansia furibonda passa ad uno stadio di rassegnazione, di coscienza del male che incombe sugli uomini. Non un attimo di piacere, ma un rendersi progressivamente conto che la vita nulla riserva di bene all’individuo, un ripiegarsi continuo e sempre più profondo su se stesso, su una realtà che ormai ben poco concede al mondo e alla natura. Non più il ricordo del tempo passato, come nel Passero solitario e ne Le Ricordanze, ma il  presente: non occorre più volgersi al passato per capire la propria realtà esistenziale che affoga nella noia e nell’infelicità, ma basta guardare il presente, studiarlo e capirlo, per diventare coscienti che col passare degli anni è diventato sempre più misero e arido e fonte di infelicità, man mano che con l’avvento della giovinezza sono venute a svanire quelle illusioni che la Natura ha infuso nel cuore degli uomini alla nascita. Muta anche il concetto di Natura, non più madre benigna. La somma dei sentimenti espressi in questo canto si traduce non più nella condizione della solitudine, ma nella noia o tedio che è "L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch’è lo stato più ordinario della vita, non è né indifferente, né bene, né piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d’altronde i mali non fossero più che i beni, né maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4. Maggio. 1829 – Zib. 4498).

 

Possiamo individuare in questa poesia due grandi temi fondamentali:

1) tematica della vita cosmica

2) tematica della vita umana.

La tematica della vita cosmica comprende la descrizione della vita del cosmo e della luna, la quale tutto sa, e nella quale quindi noi possiamo trovare la profonda serenità esistente nelle cose, dovuta alla conoscenza delle origini e dei fini cui le cose stesse tendono. La luna, il simbolo più visivo ed immediato dell’universo (e il più caro alla fantasia umana), tutto sa ed intende, non solo del proprio moto celeste, ma anche dell’andare del tempo, del trascorrere delle stagioni, della "essenza" dell’uomo. Ciò che caratterizza appunto la vita cosmica è la conoscibilità di tutte le cose, quella stessa possibilità di conoscenze che l’uomo non possiede.

La tematica della vita umana è identificabile:

1) nel rapporto con la vita della luna;
2) nella descrizione della vita dell’uomo (sia nella classica similitudine con il cammino del "vecchierel bianco infermo", sia nella descrizione suggellata, racchiusa, cioè sottolineata, dai versi: "se la vita è sventura / perché da noi si dura?";
3) nel rapporto con la condizione esistenziale della "greggia" dal quale rapporto esce il concetto di noia, come condizione esistenziale di un uomo consapevole di nulla sapere dei propri destini.

– desolazione della vita dell’uomo –
– assenza di conoscenza –
– l’uomo nulla sa: quali sono le origini dell’uomo, perché viene creato, quali sono i fini a cui tende, quali sono i rapporti con gli altri uomini –
– nulla sapendo l’uomo vive nella solitudine, che è una condizione di vita determinata dalla mancanza di rapporti fra uomo e uomo i cui sentimenti sono la tristezza e il dolore, e la cui caratteristica è la irrisolvibilità. La condizione è esterna all’uomo, il sentimento invece è interno all’uomo, e su di esso gioca un ruolo importante la speranza, che determina una diminuzione del dolore stesso. In questo canto la speranza è praticamente assente, per cui il sentimento del dolore in alcuni punti esplode in tutta la sua violenza –
– il poeta conosce solo la propria fragilità e il male della propria vita, una sventura che comincia già con la nascita –
– la condizione di mancanza di conoscenza porta alla noia –

– descrizione della vita della luna –

– presenza di conoscenza  –

– la luna tutto sa: la ragione del mattino e della sera, del tacito infinito trascorrere del tempo, a quale amore ride la primavera, a chi giova il caldo dell’estate, cosa procura l’inverno coi suoi ghiacci –

– la luna sa le cose che sono celate al pastore: perché l’ardere di tante stelle, che fa l’aria infinita e l’infinito sereno universo, cosa significa questa solitudine immensa, cos’è l’uomo –

– la luna, giovinetta immortale, conosce il frutto d’ogni terrena e di ogni celeste cosa –

  

  La lingua

Il poeta usa un codice poetico lineare e significativamente semplice: in rapporto inverso con la semplicità riscontriamo la drammaticità della condizione dell’uomo che nulla sa del proprio  destino. Solo alcune parole, come /cuna/, /calle/, /albòre/, ecc., sono tipiche del codice poetico. L’uso del linguaggio semplice ci porta più facilmente a cogliere la speranza del poeta di poter alleviare in qualche modo l’angoscia originata dalla propria  limitata conoscenza e dalla noia. La seconda strofa risulta la più nervosa dell’intera poesia, a causa di un uso paratattico del sistema linguistico, con un unico soggetto che regge una lunga sequenza sia di espansioni sia di verbi; i verbi a loro volta mancano di espansioni nominali e di complementi cosiddetti indiretti, per cui il loro significato risulta profondo e poco sfumato, e le sfumature sono rivolte interamente solo al "vecchierello", che è il vero centro che focalizza la nostra attenzione. La lettura parte con un andamento lento; ma dopo essersi soffermato un attimo su "gravissimo fascio", diventa sempre più rapido e nervoso dalla sequenza nominale che comincia col verso 21 alla sequenza verbale dei vv. 27-31 e si accelera man mano fino a posarsi su "lacero, sanguinoso" per bloccarsi all’improvviso davanti all’espressione "abisso orrido, immenso", un abisso che fonicamente si distende su "orrido" di cui si riempie per scatenare un senso di angoscia indescrivibile, che sfuma nel lungo verbo "precipitando" e nel verbo "oblia", quasi un balbettamento che nell’oblio difende l’anima umana dal sopravvenire dell’orrore.

 Per contrasto la lirica ha un andamento lineare, molto musicale in quella perfetta alternanza di versi endecasillabi e settenari, alternanza dettata al poeta dal "gusto poetico".
 Per tre volte il poeta nomina il gregge al femminile: la femminilizzazione di qualunque parola dona al significato una concettualità più sfumata e gentile; in questo caso la femminilità di /greggia/ ci fa capire il desiderio del poeta di sfuggire almeno nell’illusione alla propria condizione esistenziale dominata dal /tedio/ e dalla /noia/, quasi fino ad accettare la situazione della greggia che "posa all’ombra" e che non ha pensieni di qualunque natura che possano turbare la sua tranquillità.

 

  Pessimismo o infelicità

 La condizione dell’uomo secondo Leopardi è divisibile in tre fondamentali momenti. Il primo momento è caratterizzato dall’assenza dell’infelicità e corrisponde al primordi dell’uomo; il secondo momento è definito: del pessimismo storico, determinato non dall’epoca storica in cui il Leopardi è vissuto, ma da un preciso ragionamento di tipo storiografico: l’uomo primitivo per difendersi dagli altri uomini o dalle bestie feroci si allea con altri uomini creando in tal modo i primi nuclei sociali, ovviamente da determinate  norme valide per tutti: è proprio questa obbligatorietà situazionale che crea nell’uomo la mancanza di libertà d’azione, mancanza che diventa fonte d’infelicità. Il logico superamento di questa mancanza di libertà d’azione, cioè dell’infelicità, il poeta lo trova nella natura. Lo stesso concetto di natura (nel periodo che va dal 1818 al 1825) acquista una significatività particolare accostata al concetto di natura come madre benigna degli uomini. Il terzo momento è caratterizzato dal pessimismo cosmico; il poeta non riesce a superare la propria infelicità perché dominato dall’infelicità del mondo nel quale è posto, il mondo a sua volta non riesce a superare la propria infelicità dominato dall’infelicità dei sistemi di mondi nei quali è posto e dall’infelicità del cosmo (non solo l’uomo è infelice, scriverà nello Zibaldone, ma tutti gli esseri animati e inanimati, il mondo, il sistema di universi: il cosmo nella sua totalità.)

     


 

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