Giacomo Leopardi, dopo la
pubblicazione delle Canzoni nel 1824 e dei Versi nel 1826, curò personalmente
due edizioni delle sue poesie con il titolo Canti: la prima presso l’editore
Piatti a Firenze nel 1831; la seconda presso l’editore Starita a Napoli nel
1835; negli ultimi due anni delle sua vita il poeta esercitò su quest’ultima
un’assidua opera di revisione e correzione, anche in vista di una edizione
parigina, poi sfumata; da questa ‘Starita corretta’, accresciuta con La ginestra
e Il tramonto della luna del 1836, deriva l’edizione definitiva in 41 canti,
curata dopo la morte del poeta, da Antonio Ranieri per l’editore Le Monnier nel
1845.
E’ stata soprattutto la Starita del 1835, divenuta il punto di partenza
delle successive edizioni critiche, a creare problemi agli studiosi, vuoi per
correggere le interpolazioni del Ranieri, ad iniziare dal Moroncini (1927), vuoi
per la collocazione all’XI° posto nella raccolta della lirica Il passero
solitario.
Si sono intrecciate dotte e sottili disquisizioni e
contrapposizioni, finalizzate soprattutto a stabilire la data certa di
composizione di questo grande ‘canto’, tutto sommato, però, ritenuto di tono
minore e microtesto quasi irrilevante nell’economia complessiva della raccolta,
al punto che, ad esempio, ne Il materiale e l’immaginario di Remo Ceserani e
Lidia De Federicis non se ne trova traccia.
L’accordo di fondo, e non
potrebbe essere altrimenti, è che esiste un abbozzo di esso del 1819; solo Maria
Corti, insieme a Flora, ha sostenuto che sarebbe stato scritto compiutamente tra
il ’19 e il ’20; ad essi hanno replicato sia Monteverdi (1967) che De Robertis
(1970), che definisce tale canto una "contraffazione d’autore"; circa la data di
composizione , dopo aver scartato l’ipotesi degli anno 1828 – 1830, durante la
sua ultima permanenza a Recanati, la si colloca o nell’autunno del 1831 – il che
spiegherebbe la sua mancata presenza nell’edizione Piatti, uscita in primavera
-, o – è l’ipotesi accennata da Bruno Biral, di una totale scrittura napoletana,
cui propendono altri critici – nel 1834. Piero Bigongiari (1961), nella sua pur
sottile geometrica quadripartizione dei Canti, non ritiene tale lirica un ‘nodo’
da approfondire: nella sua partizione – canti I-IX, X-XVIII, (XIX), XX-XXV,
XXVI-XXXIV -, che pur resta la più affascinante e acuta, Il passero solitario
viene semplicemente inserito in una ‘serie’ in posizione secondaria, rivelando
di considerare quasi normale una collocazione ‘eccezionale’; mentre, a mio
avviso, è una lirica programmatica, pur se poeticamente risolta, che suscita
anche il sospetto – se Leopardi è stato considerato un ‘maestro del sospetto’,
perché non dovremmo sospettare di lui? – di (auto)ironia, delicata non
sarcastica come nelle Operette morali, quando descrive la sua solitudine quasi
con noncuranza, come facendo il verso al lettore virtuale che si commuove e
compatisce quell’adolescente di "vita strozzata"; così come il finale – così
enfaticamente tragico ("ahi, pentirommi… volgerommi") – mi pare una ironica
‘palinodia’ di certi suoi rettorici e letterari eroismi e furori giovanili (si
pensi al non felicemente noto "io solo/ combatterò, procomberò sol
io").
Certo è che Leopardi non organizza la struttura dei Canti secondo
l’ordine cronologico e che interviene sui testi, con varianti, per tutta la
vita: intende, e non è una novità, costruire la sua biografia poetica e
intellettuale, l’immagine ideale del suo io poetico da consegnare alla
posterità, orazianamente aere perennius ("non omnis moriar" riecheggiava
certamente nella sua mente, educata al culto della classicità e della gloria
poetica).
Risulta pertanto difficile pensare ad una collocazione casuale o
di pura consonanza tematica, non metrica, con i cosiddetti ‘piccoli idilli’, che
lo seguono immediatamente. Non può che trattarsi di una disposizione strategica,
programmatica appunto, in una posizione di bifrontalità che illumini ad un tempo
l’inizio e la fine e che, come una cesura dove ci si debba fermare, condensa il
senso profondo della sua scelta di vita, consacrata totalmente alla verità in
forma di poesia, ma soprattutto la sua estraneità, anacronistica e antagonista,
al suo tempo, nel quale vive postumo, in quanto lo vede con l’occhio
disincantato di un morto ("ch’amara/ nel fior degli anni suoi vecchiezza
impara", Alla primavera, o delle favole antiche); che sa, per averla
sperimentata nella sua essenza oltre ogni apparenza, e rivela cosa sia
crudamente l’esistenza nella sua profonda e tragica ambiguità.
A me pare,
insomma, che la scelta di collocare Il passero solitario all’ XI° posto nasconda
una profonda ipersemantizzazione, che rinvia per strati successivi all’XI° canto
dell’Inferno di Dante, all’XI° del Purgatorio e, soprattutto, all’XI° del
Paradiso, il canto, appunto, di San Francesco. Suggerisce in tale modo: il
significato implicito dell’ordinamento complessivo del macrotesto; la coscienza
della vanità della fama rispetto all’eternità, ma anche la consapevolezza della
propria futura grandezza terrena nella memoria degli uomini; la scelta della
povertà, intesa come deprivazione di vita attiva, per dedicarsi totalmente,
attraverso la contemplazione e l’auscultazione della propria anima, alla
elaborazione e alla diffusione del suo messaggio di vita sub specie mortis.
Tale rinuncia a vivere la storia degli altri, per percorrerne un’altra
‘povera’ e deprivata di vita quotidiana, aspra e tormentata – un Io risolto,
realizzato, essente solo e totalmente come parola poetica: puro sguardo che
rivela il grado zero dell’esistenza e le sue verità ultime, guardandosi vivere
-, è conseguente alla scoperta e all’intuizione folgorante e traumatica di
essere un ‘senza futuro’, contenuta nella cantica in terza rima Appressamento
alla morte del 1816, presente in forma parziale nei Canti come Frammento
XXXIX.
Prima ancora della epocale crisi psicologica e ideologica del 1819,
indotta dalla grave malattia agli occhi e dalla conferma attraverso la fragilità
del proprio corpo della malignità di Natura, è proprio la lingua metaforica
della poesia, folgorante e incontrollabile eruzione dell’inconscio, che squarcia
e gli illumina, come il fulmine il funebre manto della notte, il proprio
destino: "E in quel momento/ si spense il lampo, e tornò buio l’etra,/ ed
acchetossi il tuono, e stette il vento. // Taceva il tutto; ed ella era di
pietra". In apparenza è la storia di una giovinetta, che si reca trepida e
felice ad un appuntamento amoroso, carezzata dalla serena luce della luna
attraverso una selva incantata, quando improvvisamente un temporale, con lampi e
tuoni, annera tutto e raggela e dissolve nell’angoscia la sua gioia. In realtà,
se leggiamo dietro la ‘lettera’, scopriamo che è un sogno erotico; la sintesi di
dolcezza, violenza e dolore che è l’atto sessuale; l’allegoria della uccisione
del desiderio, della pulsione giovanile che s’aggira in un sensuale corpo
femminile, che ha l’incarnato della luce lunare e i segreti misteri della
natura, come nel Cantico dei cantici: la landa vezzosa e lieta, la radura
inargentata, la delicatezza serica della vegetazione, il ruscello, la valle
bruna, i collicelli, la rugiadosa luna, ma anche il rosso della violenza, la
perdita del sé provocata dall’orgasmo: una globale metafora sessuale, appunto.
Sulla purezza e ingenuità adolescenziale dell’onanistica scoperta del piacere
del corpo si addensa improvvisa la tempesta: "il piacer di colei farsi paura";
la luce e la gioia scompaiono inghiottite da una nube ("a cieca oscuritade in
grembo"); l’aria si fa tetra, si dilata dentro nell’anima la voragine del
rimorso, scoppia il lampo bruciante della trasgressione, la bufera anfanante del
Super-Io, il buio del senso di colpa: una ferrea, bigotta, disumana censura che
impietrisce, inibisce e annichilisce la libido , inaridisce la concreta, non
immaginata, proiezione affettiva verso la donna, lo decorporalizza e lo
trasforma in una vivente epoché husserliana, puro sguardo emozionale e
fenomenologico con una implosione del cosmo e della storia nella coscienza e nei
sentimenti; é l’inizio di una lunga, inconclusa, ricerca del corpo perduto (Il
primo amore, Il sogno, Alla sua donna – antidoto alla disperazione di Consalvo
-, Il pensiero dominante – che gli dà la forza di scrivere A se stesso e di
affrontare le due poesie sepolcrali – riflessioni sopra altri monumenti rispetto
a quello di Dante – non sono però dei semplici surrogati – tanto meno un
ritardato calco stilnovistico della donna-angelo – dell’amore vero e concreto,
ma una sorta di ricarica psicologica e desiderante, per affrontare le varie
tappe del suo doloroso percorso poetico-esistenziale).
Da questo istante sul
piano poetico e letterario Leopardi procederà alla costruzione della propria
tradizione ( per dare fondamenta ad un io poetico, dato che l’io reale
periclitava sull’abisso dell’assenza di affetti primordiali) e della propria
specifica ed irripetibile individualità poetica in un confronto serrato con gli
antichi, nella forma chiusa della ‘canzone’, e soprattutto con un contemporaneo,
Ugo Foscolo (Colaiacomo, 1995), bruciando ogni residuo arcadico – occorrenze
casuali significano niente -, trasformando la musicalità estrinseca e il
bozzettismo naturalistico in musica interiore e imitazione della natura nella
sua bellezza ideale e nella sua perfezione interna non nell’apparenza esteriore.
Assistiamo in questa fase ad un procedimento costante di
appropriazione-sostituzione (ai ‘miti’ foscoliani dei Sepolcri – Parini,
Machiavelli, Michelangelo, Galilei, Omero sostituisce, ad eccezione di Dante,
Petrarca e Alfieri, Tasso, Ariosto, Colombo, Simonide); di differenziazione
(illusione pubblica vs illusione privata); di precisazione (vedi l’ossianesimo
particolare dei suicidi Bruto e Saffo); di acquisizione originale di certo
lessico foscoliano – si pensi alla "allettatrice" Aspasia – sullo sfondo di una
comune concezione materialistica e di una condivisa ideologia della duplicità ed
ambivalenza del tempo (distruttore vs memoria costruttrice, durata che vince il
divenire) e della natura (materna vs matrigna, "forza operosa" che "affatica" le
cose "di moto in moto", crudele e indifferente macchina distruttrice). Gli anni
fino al 1822 rivelano appunto questa febbrile ricerca di se stesso e della
propria individualità poetica, che emerge a ‘frammenti’ e intersecandosi con
l’altra ricerca-distanziamento in quelli che saranno poi definiti ‘piccoli
idilli’, che disaggregano gli endecasillabi sciolti del solenne civile carme
foscoliano in frammenti lirici (salvo ritornare al ritmo ampio e monumentale
degli endecasillabi sciolti, nel pieno della rivoluzione metrica della canzone
libera o ‘a selva’, nel carme-lirico-personale, non civile da poeta-vate, delle
Ricordanze).
Ecco allora che Il passero solitario, con la sua collocazione –
ed il segnale forte, dato soprattutto dalla novità metrica -, fissa il
discrimine tra l’apprendistato poetico, l’acquisizione del proprio stile –
tematico, ideologico, metrico – e prospetta l’evoluzione complessiva della sua
lirica. E’ in questo canto che Leopardi scolpisce la propria definitiva immagine
poetica, costruita non sul filo della memoria ma al presente: Il passero è Saffo
metamorfizzata dopo il metaforico suicidio e prelude all’ultima metamorfosi, la
ginestra: dall’umano all’animale al vegetale: una discesa progressiva dei gradi
dell’essere, riduzione e dissoluzione dell’io storico , pereunte, a favore
dell’io poetico perennemente presente, finché ci sarà vita sulla terra o,
foscolianamente, "finché il Sole/ risplenderà sulle sciagure umane".
Vorrei
anche che non si dimenticasse la predilezione infantile di Giacomo per le
invenzioni sceniche e teatrali coi fratelli Carlo e Paolina e che giovanili
composizioni furono delle tragedie; esperienze queste che lo renderanno sempre
molto attento alla ‘scenografia’ dei singoli canti, alla messa in scena del
soggetto poetante e all’architettura e scenografia dell’intera raccolta. Perché
non credere che egli abbia voluto costruire il proprio teatro? ("Si dice con
ragione – scriveva – che al mondo si rappresenta una Commedia, dove tutti gli
uomini fanno la loro parte"): il Passero solitario come ‘scena totale’, che dà
significazione e organicità ai Canti?
Osservando l’ordinamento complessivo di
essi, con le relative date di composizione, notiamo che lo spostamento più
forte, dopo Il passero solitario, è quello di Consalvo, composto nel 1832 come
XXXIV cronologicamente e collocato al XVII° posto. Dopo Al conte Carlo Pepoli
(1826), a parte la lieve anticipazione del Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia, sostanzialmente ordine cronologico e ordinamento logico coincidono;
devo dire che sono contrario a considerare, come taluni critici, l’epistola in
versi al Pepoli come un semplice consuntivo della prima parte, in quanto si pone
proprio come ponte di collegamento tra le prime tre parti e le ultime tre, a
colmare il cosiddetto ‘silenzio della poesia’ degli anni 1824-1828.
Il 1824,
peraltro, è l’anno in cui attraverso due opere diverse, una di ‘filosofia morale
e sociale’, Saggio sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, e le
prime 20 Operette morali, sperimenta in prosa lo ‘sguardo anacronistico’ del
Passero, l’occhio extratemporale, antico, che rivolta come un guanto la società
del suo tempo, utilizzando parametri e giudizi di valore universali, e taglia
come un rasoio affilato, con una lingua che pare provenire dall’oltretempo tutte
le false credenze – non le ‘illusioni’ ma le mistificazioni – del suo tempo,
dando forma compiuta al suo straniamento e alla sua dislocazione psicologica,
culturale e storica, segnalata dal Passero.
E’ evidente, comunque, il lavorio
intenso, non lieve, a posteriori, non solo variantistico, sull’ordinamento delle
prime tre parti, quando il giovane è sì padrone della tecnica poetica, ma non
della materia interiore e culturale che preme dagli abissi dell’anima, per
prendere forma in poesia. Per cui, seguendo la cronologia fino al X° canto,
osserviamo che è soggetto a spinte contrastanti, a verifiche personali
divergenti, a scoperte e intuizioni folgoranti, che lo lasciano come
annichilito, perché la poesia delle verità ultime nel mentre ‘libera’ è
impietosa e crudele, come una Gorgona, perché imprigiona in maniera definitiva
nella propria autocoscienza e nel proprio destino; tale essere in bilico tra
disconferma affettiva e letteraria (principio di identità) e coscienza della
propria grandezza intellettuale (ricordiamo che dal 1817 inizia l’amicizia col
Giordani) spiega l’insistenza con cui Leopardi torna sul concetto di ‘amor
proprio’, quell’amore di sé, che è sempre incerto tra autostima e narcisismo,
tra l’essere in sé e per sé e l’essere per gli altri e, quindi, perdersi come
sé.
Non è mia intenzione proporre una nuova ‘lettura’ dell’ordinamento dei
Canti, però non posso fare a meno di sottolineare che io la sento così, col
discrimine, analettico e prolettico, del Passero solitario e dei ‘piccoli
idilli’ (che costituiscono la quarta delle sette parti in cui io li
suddividerei, ma apicale rispetto alle altre che sono specularmente scalari):
1. La costruzione della tradizione (I – III), dopo la frattura della
modernità; il richiamo non al passato, che viene ‘bruciato’ nell’accidentalità
del suo divenire, ma all’antico, alla persistenza e alla durata di ciò che, pur
provenendo dalla storia, astrae da essa e come si sottrae alla storicità e al
tempo, pur emanando da esso: il valore paradigmatico degli antichi, quanto a
virtù civili, rapporto con la natura, immaginazione poetica;
2. La fine
della moralità, della gloria e della fama (IV -VI);
3. La fine della
realtà delle favole e della ‘beata prole’, la scoperta che "l’apparenza ha preso
il luogo della sostanza" con conseguente morte del suo Io storico, che viene
sostituito da un io desiderante, che si aggrappa, per sopravvivere,
all’esperienza puramente psicologica dell’amore (VII – X);
4. La forma
prima della sua individualità poetica (XII – XIV) e le cadute e le riprese della
maturità (XV -XVIII), con la ‘sospensione’ risolutiva di ogni incertezza
psicologica ed ideologica delle Operette morali;
5. La ricreazione
memorante dell’io (XXI – XXV);
6. La consapevole distruzione del sé e la
contemplazione assoluta della morte (XXIX – XXXI) ; 7. La dissoluzione dell’io
in voce del mondo, non più della storia e del tempo (XXXIII – XXXIV).
Se
davvero, come ipotizzo, agisce in lui, nella delineazione della sua biografia
poetica, una sotterranea imitatio Christi e francescana, potrebbe non essere
assente nella partizione che propongo la simbologia del tre e del sette.
Comunque, dicevo che all’apicalità della quarta sezione corrisponde una
specularità – quasi che la seconda sezione costituisca l’inveramento della
prima, perché, come ha scritto Viviani, "la verità si scopre subito, ma ci vuole
una vita per crederci" – e scalarità delle altre, che imprimono anche un
movimento ciclico e spiraloide alla raccolta, secondo tale rappresentazione
grafica.
Possiamo immaginare – credo ovviamente in un’inconscia
traduzione laica della simbologia cristiana da parte di Leopardi – i Canti come
una serie di affreschi, in cui si racconta, attraverso immagini, una vita
esemplare. Tali affreschi potrebbero trovarsi in un’abside o in una grande
cupola circolare o anche in un’abside e due facciate di una navata, con le
storie impaginate su tre piani, con al centro, comunque e sempre, il passero
nella icononografia popolare di rappresentazione dello Spirito Santo, una
colomba vs un passero, da dietro il quale fuoriescono i raggi dorati della
Grazia vs Verità illuminante, che si riverberano sulle singole scene,
unificandole e allegorizzandole, e fissandone per sempre il carattere di
assoluta paradigmaticità.
Il grafico sintetizza visivamente la poetica
leopardiana della ambivalenza dell’esistenza, metaforizzata nelle ‘figure’ del
passero (specie naturale e metafora esistenziale) e della giovinezza, dove gli
opposti si richiamano e si respingono ad un tempo, e la fine coincide con
l’inizio, con la dissoluzione, attraverso l’immortalità della parola poetica,
dell’esistente storico nell’essere antico come la Natura (la ginestra): Il
passero solitario è lo sguardo ciclico, circolare e totale che ingloba gli
sguardi parziali; la cornice dei singoli componimenti poetici, che con la sua
melodia – il present continuous "cantando vai" – unifica e sostiene ritmicamente
la struttura complessiva dei Canti.
(*) Questo scritto costituisce il I°
capitolo di un mio libro in fieri, Leopardiana. ControCanti, di cui sono stati
anticipati su Zeta, n°51/52, maggio 1998: Dal sarcasmo all’antifrasi ironica.
"Il risorgimento" di Giacomo Leopardi, e sul Messaggero Veneto del 27 febbraio
1998: Leopardi e la montagna.
Ermes Dorigo