Camus e Leopardi

Una bella notizia

È in corso di pubblicazione un inedito di Binni del 1934, L’ultimo periodo della lirica leopardiana. Il volume è pubblicato dalle Edizioni del Fondo Walter Binni in coedizione con Morlacchi editore di Perugia. A cura di Chiara Biagioli, premessa di Enrico Ghidetti, presenta il testo inedito della tesina universitaria del 1934 che Binni, allora allievo di Attilio Momigliano alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha sempre indicato come nucleo di origine della Nuova poetica leopardiana del 1947.

Un libro

Presentato il nuovo libro di Raffaele Urraro. Sotto la lente dell’autore la vita sentimentale e il rapporto che il grande Giacomo Leopardi aveva con le donne.

Mancava forse nel già vasto panorama degli studi e degli scritti su uno dei nostri più grandi poeti, Giacomo Leopardi, un aspetto peculiare della sua vita sentimentale e del rapporto con le donne da lui conosciute e in qualche modo frequentate. Questo aspetto è stato magistralmente descritto, commentato e valutato da Raffaele Urraro nel suo ultimo libro "Giacomo Leopardi, le donne, gli amori", edito dalla nota Casa Editrice Leo S. Olschki di Firenze e presentato per la prima volta (ieri, 15 novembre 2008, ndr), nell’auditorium dell’Istituto Alberghiero Luigi de’ Medici di Ottaviano.
Si tratta di un libro corposo e intenso, che ha impegnato Urraro per molti anni in approfondite e dettagliate ricerche, soprattutto presso il Centro Nazionale Studi Leopardiani di Recanati, ma che si fa leggere con piacere grazie alla scrittura scorrevole e all’ottimo impianto espositivo dell’Autore. Il libro rappresenta certamente una novità in questo campo, perché, come ampiamente illustrato e sottolineato dai valenti relatori con una colta e fluida esposizione del tema trattato dall’Urraro, era importante rimarcare non tanto la storia terrena degli insuccessi amorosi di Leopardi, insuccessi generati purtroppo, come sappiamo, dal suo stato fisico deforme, ma quanto la storia spirituale, filosofica e poetica che, proprio grazie a queste frequentazioni femminili, hanno "ispirato" in lui opere e poesie di grandissimo valore letterario.
Nel libro sono descritti gli incontri, le donne e anche luoghi e situazioni, per cui ci viene offerto anche un interessante spaccato della vita sociale dell’epoca. Un libro interessante e piacevole, da leggersi come un romanzo, e che non deve assolutamente mancare nelle nostre librerie e nelle biblioteche.
Raffaele Urraro è laureato in lettere classiche presso l’Università Federico II di Napoli, è giornalista pubblicista, poeta e saggista. Oltre a numerose opere di poesia, ha realizzato in collaborazione con Giuseppe Casillo, molte antologie di classici latini e una storia della letteratura italiana in 3 volumi. I relatori: Giuseppe Casillo, scrittore; Marcello Carlino, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università "La Sapienza" di Roma; Ruggero Guarini, scrittore, redattore del Corriere del Mezzogiorno; Alessandro Carandente, poeta e scrittore, direttore della rivista di letteratura e arte "Secondo Tempo".
Ha concluso lo stesso Raffaele Urraro, salutando e ringraziando i convenuti, e illustrando ulteriori interessanti passaggi del suo libro.
Numeroso e attento il pubblico in sala, tra cui molti amici e conoscenti dell’Autore, poeti e scrittori napoletani e dell’area vesuviana.

Autore: Giuseppe Vetromile

Lo Zibaldone nel mondo

12/11/2008
RECANATI: Il CNSL a Zurigo per promuovere ‘Leopardi nel mondo’
Tradurre lo Zibaldone di Leopardi nelle lingue più conosciute e parlate in Europa: è questo l’ambizioso obiettivo del progetto ‘Leopardi nel mondo’.

Una delegazione del ‘Centro Nazionale Studi Leopardiani’ (CNSL) infatti, è da poco rientrata in Italia dopo il convegno organizzato a Zurigo da Tatiana Crivelli, titolare della cattedra di Letteratura Italiana dell’Università svizzera, e dall’‘Istituto Italiano di Cultura’. Convegno che ha aperto nuove e importanti prospettive nei rapporti del CNSL con le istituzioni culturali europee.
In particolare si è discusso del potenziamento e arricchimento delle relazioni internazionali, mediante le quali dar seguito e rinnovato vigore al progetto che l’ex presidente del CNSL, Franco Foschi, aveva coltivato con passione e lungimiranza durante i venti anni del suo incarico.
L’obiettivo è quello di affiancare alla traduzione integrale e commentata dello Zibaldone in inglese, a cura del ‘Leopardi Centre’ di Birmingham, e a quella in lingua francese e spagnola promossa dalla Cattedra di Letteratura Italiana di Barcellona, quella in tedesco, per raggiungere la meta di uno Zibaldone europeo, ossia leggibile nelle principali lingue europee e fruibile anche con i mezzi informatici.
Ulteriori informazioni sul sito del CNSL

Un’intervista

Il rapporto tra la Bibbia e Leopardi in un’intervista a Loretta Marcon
Dall’alto dell’ermo colle
con gli occhi di Qoèlet


Giovanni Casoli
Loretta Marcon è una mite signora padovana che non si fa fermare da nessun ostacolo culturale. Gli ostacoli culturali in Italia sono i farraginosi e clientelistici sistemi universitari e le "grandi" macchine editoriali e massmediatiche con annessi premi letterari, che, salvo rare eccezioni, sono barzellette che non fanno ridere. Lei, Loretta Marcon, senza paracadute editoriali e amicizie universitarie è diventata, con silenzioso lavoro e passione gratuita, una leopardista di tutto rilievo, condividendo oneri e onori con l’ottimo e ben noto editore Guida di Napoli. Da qui sono usciti due volumi Giobbe e Leopardi (2005) e più di recente un Qoèlet e Leopardi (2007) che, insieme ad un precedente saggio di chi scrive – Dio in Leopardi edito da Città Nuova nel 1985 – riempiono nella critica un posto lasciato spesso volutamente vuoto, o minimizzato, o distorto nonostante la dimensione religiosa di ogni parola leopardiana. E nonostante anche il fatto che Leopardi stesso abbia avvertito contemporanei e posteri dalle facili ideologie, che, invece di biasimarlo per il suo pessimismo – essi che conciliavano e conciliano bella vita e misticismo o simili – dovrebbero rispettare chi come lui "Giobbe e Salomon difende", come Leopardi afferma ne I nuovi credenti: Giobbe e Salomone, ovvero il sapiente doloroso e l’allora creduto autore dello straordinario Libro di Qoèlet.
Loretta Marcon – ci fossero oggi, in Italia, molti studiosi come lei, fuori dalle ideologie e dai poteri – ci guida dapprima alla somiglianza-differenza del genio recanatese con Giobbe: all’impossibilità per Leopardi di superare il vertiginoso scalino illuministico che scende all’autosufficienze della ragione divenuta, per contrazione e irrigidimento, mera raison; con quella soltanto un animo puro e nobile come quello del poeta del Canto notturno non poteva non approdare all’infinita spiaggia del dolore irredento e del, per citare un grande leopardiano contemporaneo come Carlo Emilio Gadda, "fulgurato acoscendere di una vita". E ci guida poi nell’ancor più intrigante somiglianza-differenza di Leopardi con il desolato Qoèlet. Chi grida a diciannove anni "Oh, infinita vanità del vero!" – così nello Zibaldone, anticipando di sessant’anni Nietzsche – ha un’immensa, inappagabile, evangelica nostalgia della verità non astratta e perciò morta, ma incarnata e perciò viva e "superviva" del Cristo, mai veramente conosciuto e anzi disconosciuto in casa Leopardi; così come il sapiente dell’Assemblea (Qahal) ha un infinito e inappagabile desiderio di senso e di valore, vissuto, biblicamente "gustato" in un afflitto nichilismo esistenziale che non esclude anzi postula la fede assoluta nel Dio di Israele. I due nichilisti appassionati, così diversi e affini, hanno sete inesausta di vita; Leopardi "odia la vita e te la fa amare", come perfettamente dice Francesco De Sanctis, Qoèlet predica il suo "hebel habalim (vanitas vanitatum)" riecheggiato nell’"infinita vanità del tutto" leopardiana: assimilazione e dissimilazione ad un tempo di motivi complementari profondissimi e perenni, da cui il lettore, per la mano di Loretta Marcon con la sua padronanza sicura e totale del testo e della critica, resta affascinato.
Perché ha incominciato a interessarsi di Leopardi e in particolare della sua dimensione religiosa, che in verità pervade tutta l’opera, ma che la gran parte della critica minimizza, nega o distorce?
La figura di Leopardi mi ha sempre affascinato e non solo per la sua sublime poesia. Il suo pensiero, che esamina e sfaccetta tutti gli aspetti della vita umana, è un qualcosa che mi ha attratto in un modo molto forte spingendomi verso una strada che si è rivelata, mano a mano, assai intricata e complessa. Forse una delle pagine leopardiane "colpevoli" di questa passione è stata, dopo l’Infinito e il Canto notturno di un pastore errante, quella famosa dello Zibaldone che descrive un giardino in "istato di souffrance". Mano a mano che procedevo nello studio e nella ricerca pensavo, con sempre maggior convinzione, che la tesi dominante della critica che, fin dal 1947, propugna l’ateismo e il materialismo assoluti di Leopardi, forse non era proprio corretta. Considerando tutta l’opera e la stessa vicenda esistenziale di Leopardi, mi sembrava di poter rilevare una religiosità profondissima, tanto che molte pagine bibliche mi tornavano alla mente.
Perché ha focalizzato la sua ricerca, ottimamente centrata e illuminante, sui rapporti tra Leopardi e Giobbe, Leopardi e Qoèlet?
Durante i primi anni dei miei studi leopardiani, incontravo spesso nei vari testi di critica che andavo leggendo, definizioni che riprendevano quella che lo stesso Carducci diede parlando di Leopardi: Il "Giobbe del pensiero italiano". Erano però definizioni che si fermavano lì, ad un livello superficiale, e non approfondivano davvero, in parallelo con il poema biblico, il rapporto tra l’uomo di Uz e l’uomo di Recanati. Allo stesso modo, anche Qoèlet è stato riconosciuto, forse ancor più che Giobbe, l’altro specchio di Leopardi sia dalla critica leopardiana sia dagli esegeti – ricordo, ad esempio, che il Ravasi pone il Recanatese tra i suoi "mille Qoèlet". Infine, lo stesso Leopardi si considerava il "difensore" di Giobbe e di colui che, all’epoca, era creduto l’autore di Qoèlet, Salomone.
Quali risultati, guardandosi indietro, pensa di aver raggiunto?
Rivedendo i miei primi scritti – La crisi della ragione moderna in Giacomo Leopardi; Vita ed Esistenza nello Zibaldone – riconosco quello che è stato un poco il filo conduttore in tutte le mie ricerche, appunto quello che mi è sempre apparso evidente nella trama che compone il pensiero di Leopardi: quello della sua religiosità. Non ho mai avuto la presunzione di pensare che il mio "volto" di Leopardi rispecchiasse ciò che egli fosse stato davvero; ho solo cercato, con umiltà, di ritrovare tutti quei frammenti e/o documenti trascurati dalla critica imperante poiché non combaciavano con l’immagine ormai consolidata di un Leopardi ateo.
Gli articoli sugli stessi argomenti con cui in questi anni ha corredato i saggi precedenti, quale funzione hanno avuto?
Amando Leopardi anzi, vivendo ogni giorno con lui attraverso le sue pagine, mi ha sempre interessato discutere, su quanto andavo valutando e riscoprendo, con tante persone che, come me, sentivano la medesima passione. Penso che quando si crede in qualcosa si desideri anche far parte altri di questa fede. Gli articoli sugli argomenti dei saggi, quindi, vorrebbero, per così dire, allargare l’interesse, divulgare – anche presso chi forse non legge abitualmente saggi – la figura e il pensiero di Leopardi, mostrando anche aspetti poco considerati dalla critica ufficiale.
Progetti per il futuro?
Tanti sono i progetti che vorrei portare avanti in campo leopardiano e soprattutto in direzione di quella religiosità e spiritualità in cui ho sempre creduto. Vorrei, ad esempio, riprendere il discorso sugli ultimi giorni di Leopardi, sulla sua morte cristiana – un documento che nessuno cita e nessuno va a consultare è appunto quello che riguarda i Sacramenti ricevuti dal poeta prima di spirare – e poi sui rapporti con l’ebraismo cui era interessato non solo Giacomo ma anche il padre Monaldo.
(©L’Osservatore Romano 20 dicembre 2007)
Trovo che questo articolo, oltre ad essere molto interessante, è illuminante. Sarebbe molto interessante discutere, con l’apporto di altri scritti di questo tipo, dell’ateismo del Leopardi, se veramente esso sia frutto del suo pensiero, o di una critica superficiale.

Marcus2007 non è connesso

Timpanaro

Il pessimismo  « agonistico » di Leopardi

di Sebastiano Timpanaro.

Anche all’interno del classicismo illuminista italiano e della tradizione alfieriana – come nel più vasto ambito della cultura europea – il Leopardi occupa una posizione di punta. In lui giunge al massimo grado quella tensione tra

« Progressismo » e pessimismo che era implicita in gran parte del pensiero e della letteratura di cui egli si era nutrito. Già nei grandi illuministi francesi del Settecento, pur così fiduciosi nella possibilità di riformare la società e di rendere felice l’uomo, affiorano spunti di pessimismo non soltanto storico-sociale, ma anche «cosmico», relativo cioè al rapporto uom-natura e a certi dati immodificabili della condizione umana. La polemica contro la religione tradizionale, intrapresa con la profonda convinzione di contribuire non solo a un acquisto di verità ma anche di felicità, finiva per coinvolgere qualsiasi concezione provvidenzialistica, anche l’idea di una provvidenza immanente alla storia, di un progresso costante e necessario realizzato dall’umanità con le proprie forze. Gli argomenti usati per demolire la teodicèa si rivelavano efficaci anche contro la fiducia nella possibilità d’instaurare un regnum hominis. Il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è l’esempio più celebre, ma tutt’altro che unico, di questo insorgere di motivi pessimistici all’interno dell’illuminismo; ed è noto che il Leopardi lo lesse e ne risentì l’influsso, specialmente per ciò che riguarda l’antinomia tra infelicità dei singoli e (presunta) felicità collettiva. Ancor più evidente è, come già abbiamo accennato, il pessimismo implicito nel titanismo alfieriano. E anche nel Giordani la fede nella felicità dell’umanità futura, liberata da pregiudizi e da oppressioni, si alternò a una visione desolata dell’uomo ineluttabilmente infelice.

Tuttavia né gli illuministi del Settecento, né Alfieri, né Giordani portarono a fondo la presa di coscienza di questo contrasto. Il Poème sur le désastre de Lisbonne si conclude con un ripiegamento fideistico che, se può essere in parte dettato da cautela o diplomatica o, corrisponde però sostanzialmente al deismo a cui Voltaire rimase fermo. Nell’ultimo Alfieri, anche per effetto dell’involuzione politica di fronte all’esperienza rivoluzionaria, il titanismo cede spesso a vaghe nostalgie religiosizzanti. Il Giordani non concede nulla allo spiritualismo e alla trascendenza, ma in lui prevale la tendenza a dimenticare, nella lotta per il progresso sociale e culturale dell’umanità, il fondo pessimistico della propria Weltanschauung: anzi egli indica esplicitamente al Leopardi l’impegno della lotta come l’unico mezzo per superare, pragmaticamente se non in linea teorica, il pessimismo.

Nel Leopardi ciò non accade. Nel suo pensiero le esigenze progressiste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi, nell’ultima fase progressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli compie, non significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due.

Le caratteristiche specifiche della posizione leopardiana appaiono più chiare se ripercorriamo, sia pure in modo necessariamente sommario, l’evoluzione che il rapporto pessimismo-progressismo subisce nel suo pensiero. Nel periodo che va, a un dipresso, dall’inizio della « conversione letteraria » fino alla grande crisi pessimistica della primavera del ‘19 – ma che per più aspetti si prolunga anche dopo quella crisi; fin verso il ‘22 – il Leopardi sembra orientarsi verso una missione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani: poeta patriottico, classicista, tendenzialmente repubblicano- russoiano: di un patriottismo, quindi, per un verso più libresco, più legato al passato, più provinciale, per un altro più avanzato e democratico del patriottismo riformatore-cristiano dei romantici lombardi.

Il cosiddetto « pessimismo storico » di questa prima fase non è, a rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema. É piuttosto vivissima insofferenza dell’atmosfera stagnante dell’Italia e dell’Europa della Restaurazione, vagheggiamento di una società repubblicana, libera da superstizioni mortificanti e da ascetismo ma anche da eccessi di razionalismo e di raffinatezza, capace di vivere una vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnanime illusioni. La propria infelicità individuale è considerata, almeno prevalentemente, dal Leopardi come un caso – limite dell’infelicità della società italiana del suo tempo, condannata all’inattività e alla noia (nella Canzone al Mai il motivo della noia ha una forte intonazione politica), fisicamente decaduta per colpa di un’educazione ascetica che tende a comprimere ogni impulso vitale. Recanati – e, in Recanati, casa Leopardi – e il luogo in cui i mali comuni a tutta l’Europa della Restaurazione si soffrono in modo particolarmente intenso e paradigmatico. Ancora nella lettera dedicatoria della Canzone al Mai (1820, ristampata con poche varianti nel ‘24) il Leopardi dà un’interpretazione politica del proprio atteggiamento pessimistico: « Ricordatevi – scrive al conte Leonardo Trissino – ch’ai disgraziati si conviene vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca,ed io son un di quei che ‘1 pianger giova. Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna ».

Ma già in questa fase – e specialmente dalla primavera del ‘19 in poi – comincia a manifestarsi, in forma ancora sporadica, quello che con espressione poco felice è stato chiamato il pessimismo cosmico, cioè la tesi della radicale e insanabile infelicità dell’uomo. Alla concezione dì una Natura benefica, da cui gli uomini si sarebbero allontanati causando la propria infelicità, subentra talvolta la visione opposta, di una Natura matrigna che è essa la causa dell’infelicità umana. Questi accenni sono da ricercare non tanto nello Zibaldone, quanto in poesie o in abbozzi di poesie:

                                     « Natura

n’ha fatti a la sciagura

tutti quanti siam nati»

leggiamo nella canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del ‘19 e poi non pubblicata); e poco sotto:

« E chi diritto guata,

nostra famiglia (cioè il genere umano) a la natura è gioco ».

E in un abbozzo di idillio Alla Natura:

«Sempre adorata mia solinga sponda

Deh perché agli occhi miei turi la vista

Dell’incantevole e magico effetto

Che Natura concede alle creature.

Alle creature si, ma non a tutte…

Ah a me madrigna, spietata madre!

Dimmi il perché di tal misura e peso.

Qual spregio mai ti feci, il perché dimmi?

Da l’alveo materno me traesti

Forse a scherno e ludibrio de’ mortali?

Mortal pur io, non a lor secondo,

Né meno pena tal. Benedicesti

Pure la terra di cui me plasmasti…

(…) Opra delle tue man son dunque io,

Né disdegnar me puoi, qual belva i nati ».

C’è alla fine di questo abbozzo, dopo una punta « Blasfema », un ripiegamento:

Tu ridesti forse della mia sorte.

Ridi pur, n’hai ben d’onde: oh gran prodezza!

Un nuovo libro

copj13.asp

Cibi dimenticati e letti purtroppo soltanto da collezionisti bibliofili. Non tutti, infatti, sono a conoscenza della lista che si conserva alla Biblioteca Nazionale di Napoli insieme alle Carte del poeta; un ritaglio di carta avorio, lungo e sottile, dove la scrittura minuta e precisa, chiara ed elegante di Giacomo Leopardi si staglia netta, perdendosi nei toni dell’inchiostro bruno; un appunto, un promemoria, una traccia di un desiderio esaudito: quella lista racchiude infatti un elenco di 49 piatti realizzati con mano sapiente lì, a Napoli, dove Giacomo arriva nell’autunno del 1833 insieme all’amico Antonio Ranieri. Nel libro fotografie e atmosfere della Napoli del periodo leopardiano. Si propongono venti ricette a partire dalla lista leopardiana, seguendo l’ordine di una cucina ritmata dalla sequenza delle stagioni. 

Leopardi ecologista?

leo e fiori (2) 100_5048 Leopardi ecologista? Ovvero l’interpretazione di Sofri avverso la lotta di classe.

Adriano Sofri, in un articolo su Panorama del 12 Luglio 1987, saluta Sebastiano Timpanaro come precursore di una interpretazione di Leopardi come padre degli ecologisti. Senza volerlo, il Timpanaro, nella sua lettura di Leopardi, inoltre, ha sferrato un colpo mortale al marxismo ed agli interpreti di Leopardi “socialisti o comunisti” come Binni e Leporini, in quanto mette in evidenza che il motivo principale dell’infelicità umana non è la disuguaglianza sociale, non la divisione dell’umanità in classi, quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori, bensì la fragilità biologica dell’uomo, il suo destino di malattia, vecchiezza, morte, la fugacità e, più ancora, l’inesistenza del piacere, l’alternanza di dolore e noia in cui si consuma la vita dell’uomo. In questo quadro generale della condizione umana, dice ancora l’ex di Lotta Continua, ogni lotta politico-sociale risulta implicitamente o esplicitamente inutile, perché da quei mali di fondo nemmeno la società più perfetta e più giusta ci può salvare. Donde, nella Ginestra, l’appello alla confederazione di tutti gli uomini: il nemico numero uno è la Natura, contro di essa soltanto bisogna combattere. Ancor più sotto la minaccia della distruzione nucleare.

“Una posizione di rifiuto della lotta tra umani, fondata ragioni religiose e filosofiche, oggi trova il suo fondamento sull’emergenza storica maggiore della minaccia di distruzione atomica o ecologica”. Le ragioni delle lotte umane non sono scomparse, dice ancora Sofri, anzi spesso si inaspriscono (bontà sua…), ma passano progressivamente in secondo piano di fronte alla minaccia contro la sopravvivenza della Terra.

Timpanaro giudica totalmente irrealistico il discorso di Sofri.

Intanto, ci tiene a premettere di non essere affatto indifferente ai problemi posti dai Verdi sulla sostenibilità dell’attuale sfruttamento delle risorse naturali e sui pericoli derivanti dal nucleare. Non spetta certo alla sinistra far proprie certe facezie sul ritorno alle per coi bachi o andare a letto a lume di candela. Tuttavia, tra la prospettiva di una distruzione nucleare ed il lume di candela la scelta sembra naturale. E tuttavia la lotta verde non può portare con sé la rinuncia alla lotta di classe. Da chi sono provocati i danni ecologici? Forse dalla classe lavoratrice? No, afferma Timpanaro, gli umani che arrecano danno alla natura si chiamano fisici nucleari e chimici asserviti al Potere. L’inquinamento, dunque, non si sopprime, se non si sconfiggono le classi dominanti.

Sofri afferma poi che Leopardi entra di diritto nelle antologie verdi e che una nuova lettura “verde” del Leopardi offre stimoli notevoli. Ma di quale Leopardi, si chiede Timpanaro, parla Sofri? Una prima risposta crede di trovarla nel fatto che forse i verdi si riferiscano al primo Leopardi, rivalutando il primo concetto di Natura, come forza vergine e incorrotta, benefica all’uoimo, contrapposta alla Ragione e alla civiltà che hanno reso l’uomo infelice e insieme meschino, incapace di quella vitalità, di quelle magnanime illusioni che sole potevano dargli gioia o almeno fargli dimenticare la sua condizione oggettiva di infelicità.

Se questo fosse il Leopardi delle “antologie verdi”, l’amore dei Verdi non sarebbe del tutto assurdo, ma rimarrebbe confinato in un ambito assai ristretto, e incorrerebbe in gravi difficoltà. Intanto, i problemi specificatamente ecologici sono assenti anche dalla meditazione di questo primo leopardi, per la forte ragione che essi non si erano ancora presentati all’umanità, o si erano presentati in forme ridotte. Si, Leopardi immagina, nel Dialogo di un folletto, che gli uomini si siano tutti estinti “parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; infine studiando di far contro la propria natura e di capitar male”. Nei primi abbozzi di quel dialogo (attorno al 1820) aveva accennato più esplicitamente alla “scienza” come causa dell’infelicità umana, all’indebolimento fisico causato dalla civiltà. Ma questa civiltà che ha indebolito l’uomo non è, non può essere l’inquinamento, ma la cerebralità e le sregolatezze.

Bisognerà anche ricordare che anche il primo Leopardi è un repubblicano,un democratico – egualitario: “la perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà (Z. 567); che della Rivoluzione francese critica alcuni aspetti razionalistici, ma in sostanza ritiene che essa abbia mitigato assai il pestifero egoismo e avvia ravvicinato la Francia alla Natura, restaurando le virtù antiche.

Sennonché il secondo concetto leopardiano di Natura (meccanismo inconscio di produzione – distruzione) ha ancora meno a che vedere con le idee dei verdi. Riprendiamo quel bellissimo pensiero di pagina 4175, che abbiamo sempre letto per la sua bellezza stilistica, badando forse poco al contrasto tra l’aspetto ridente del giardino e la sofferenza che ogni pianta, subisce, inevitabilmente, a prescindere dall’intervento dell’uomo. In effetti, il ciclo vitale si basa su un incessante e necessario divorare e tormentare, che gli ecologisti non possono abolire, devono addirittura proteggere. E la spietatezza della Natura colpisce in modo più grave l’uomo (l’essere vivente più infelice), ma non risparmia alcun essere vivente.

Anche a limitare il discorso agli uomini, una vittoria, anche totale, delle rivendicazioni ecologiche li salva da terribili mali aggiuntivi, e salva l’umanità nel suo insieme da un’estinzione precoce, non dall’infelicità inerente alla costituzione biologica e psichica dell’uomo, non dall’estinzione della specie e di ogni forma di vita sulla terra , sia pure dopo un tempo presumibilmente lungo.

Identificare, come fa Sofri, la lotta contro la Natura, della quale parla Leopardi nella Ginestra, con la lotta per salvare ciò che della Natura dev’essere salvato , a Timpanaro appare una mistificazione inaccettabile.

Poi, Timpanaro chiarisce la sua espressione marxismo – leopardismo. Nessun accostamento tra i due è possibile. La filosofia di Marx è accolta dal Timpanaro nella sua visione della società e degli obbiettivi di lotta politica e sociale, mentre per quanto riguarda il rapporto uomo Natura egli si ispira a Leopardi. Leopardi lo appassiona sopra tutto per ciò che non c’è in Marx, né in altri, cioè il materialismo pessimistico e adialettico, per la rigorosa negazione di qualsiasi antropocentrismo, per la rivendicazione dell’ateismo esteso a tutti, anche al volgo.

Per quanto riguarda l’uomo storico – sociale si segua Marx, per quanto riguarda l’uomo biologico si segua Leopardi.

 

(Giuseppe Pilumeli)

Inediti

Recanati, studentessa beneventana scopre inediti giovanili sulla Bibbia di Giacomo Leopardi.

Carla Pagliarulo, 24 anni, che quest’anno si è laureata in Lettere moderne all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha fatto l’eccezionale scoperta durante le ricerche per la sua tesi di laurea.

"Torbida, e fosca tra l’atre caligini, che d’ogni intorno la cingono volvesi taciturna la notte. Un cupo orrore si stende per tutto, e le più dense, e oscure tenebre regnano d’ogni parte".
Così un inedito Giacomo Leopardi (1798-1837), poco più che ragazzino, commentava il Salmo 56 della Bibbia.
Durante le ricerche per una tesi di laurea, Carla Pagliarulo, nata a Benevento nel 1984, che ha studiato lettere moderne all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove si è laureata quest’anno, sotto la guida dei professori Giuseppe Frasso e Claudio Scarpati, ha rinvenuto nella Casa Leopardi di Recanati alcuni scritti inediti del più grande poeta italiano dell’Ottocento. Pagliarulo racconta questa sua scoperta, come rivela oggi il quotidiano ”Avvenire”, nella sua tesi di laurea "Prove di commento ad alcuni componimenti puerili di Giacomo Leopardi (1809-1810)".
La scoperta getta nuova luce sulla formazione giovanile del poeta dell”’Infinito”, perché gli scritti sconosciuti ora tornati alla luce si soffermano su motivi biblici e cristiani. Quelli ritrovati a Recanati sono composizioni risalenti all’infanzia e, più precisamente, alcune carte finora sconosciute apparentemente persino alla famiglia, raccolte in una cartella insieme alle riproduzioni fotografiche degli altri scritti puerili, già noti.
Il ritrovamento è avvenuto, per così dire, sotto l’imprevedibile regia del "caso" e la studiosa beneventana ha potuto consultare i documenti solo per poco tempo. Di norma non è in effetti ancora possibile prendere diretta visione dei manoscritti leopardiani di quei primi anni di attività creativa (1809-1811), eccezion fatta per qualche quaderno portato alla luce da Maria Corti negli anni Settanta, attualmente sotto vetro in una delle stanze visitabili della casa di Recanati. Le foto in questione sono state recentemente trasferite dal Centro Nazionale di Studi leopardiani alla Casa della famiglia Leopardi, forse a conoscenza di carte ancora inedite.

Leopardi e Chopin

Massimo Mila, Breve Storia della Musica, einaudi Torino 1977. Pag. 231.
 
"E’ questa straordinaria perfezione stilistica, questo dono di tutto tramutare in poesia, senz’ombra di residui prosastici, che dà senso al consueto paragone tra Chopin e Leopardi, più ancora che le analogie di contenuto umano, così dolente, pessimistico e sconfitto. Chè mentre il dolore leopardiano si amplia a risonanza cosmica, quello di Chopin rimane d’ordine strettamente personale – al più patriottico –  e la sua universalità la ripete unicamente dall’arte.";
 
ivi, pagg. 234 e 235.
 
"Opere come le ultime Mazurche, gli ultimi Notturni suggeriscono l’impressione che Chopin andasse evolvendo verso un’arte più complessa…….Non diversamente Leopardi terminava la sua produzione poetica nella Ginestra schiudendo – con quell’insolito senso di solidarietà umana contro la cieca natura – una finestra sopra un mondo nuovo, più virile, forse, dell’antico, comunque capace di padroneggiare e superare il dolore".

Voci precedenti più vecchie