Timpanaro


RASSEGNA STAMPA

29 DICEMBRE 2002
ALESSANDRO PAGNINI

[Se Leopardi avesse letto Freud

Torna il pionieristico saggio sul lapsus scritto da Sebastiano Timpanaro negli anni ’70

Materialista e illuminista, pose una serie di domande ancora attuali

Quando comparve per la prima volta, quasi trent’anni or sono, il saggio di Timpanaro sulle spiegazioni psicoanalitiche dei lapsus («Il lapsus freudiano.  Psicoanalisi e critica testuale», Boringhieri, Toríno 2002, pagg. 208, euro 22,00) parve a molti una divagazione dilettantesca di un filologo che giocava a "cacciare l’errore" in alcune pagine della Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, tra l’altro marginali rispetto alla teoria clinica, alla teoria terapeutica e alla teoria psicodinamica della personalità che costituivano il vero vanto della psicoanalisi. Pochi ne parlarono, soprattutto tra gli psicoanalisti, al punto che Timpanaro stesso lamentò una vera e propria "congiura del silenzio" verso il suo lavoro; fino al recente ma nient’affatto motivato riconoscimento di Giovanni Jervis, che lo ha giudicato «il più noto e forse il più importante contributo italiano agli studi freudiani internazionali».

Che lo sia in campo internazionale, non è dubbio, data l’accoglienza entusiastica che ha avuto soprattutto nel mondo anglosassone (il filosofo scozzese David Archard gli ha dedicato un intero capitolo, accanto ad altri su Sartre o su Lacan, in un libro che tratta dei problemi logici e teorici che il concetto di "inconscio" ha ingenerato, da Freud al dopo Wittgenstein; e Adolf Grünbaum ne ha fatto un riferimento costante nella sua monumentale critica epistemologica ai fondamenti della psicoanalisi); ma soltanto oggi, in Italia, grazie alla scrupolosa e sensibile rilettura che Fabio Stok ne fa nell’Introduzione alla nuova edizione, il Lapsus freudiano sembra avere i riconoscimenti che merita.

A prescindere dalle occasioni che motivarono il pamphlet (a Timpanaro non piaceva il

freudo-marxismo allora di moda, né piaceva l’iperinterpretazionismo psicoanalitico diffuso), il nucleo forte e duraturo della critica di Timpanaro alla psicoanalisi è nei suoi rilievi metodologico-epistemologici, sia pure di uno che si dichiarava dilettante e "ignorante" in materie filosofiche, e nelle sue considerazioni sul materialismo, la causalità, e le scienze psicologiche e biomediche.

Riassumendone e parafrasandone la sostanza: la psicoanalisi deve poter essere interrogata con le ragioni del senso comune (funziona? perché funziona? spiega? e le sue sono davvero le "migliori spiegazioni" disponibili?); di principio – indipendentemente dal caso proposto da Timpanaro delle spiegazioni "superficiali" della critica testuale che spesso si dimostrano più plausibili delle spiegazioni "profonde" di Freud – le ipotesi psicoanalitiche non si devono sottrarre al confronto con ipotesi eterogenee (neurofisiologiche, psicologiche "wundtiane", linguistiche, eccetera) che vertano sullo stesso dominio di oggetti; non si deve rinunciare, in materia di psiche, a forme di conoscenza scientifica, basate sulla ricerca e l’applicazione di regolarità, di leggi più o meno generali, in nome della singolarità e irriducibilità del caso e della "storia individuale" (fermo restando che i livelli di generalità, di astrazione e di legalità son ben diversi tra le scienze fisiche, per esempio, e la psicologia o la medicina o la filologia); non si deve mai credere che una considerazione dello specifico  "umano" possa prescindere dalla natura biologica e materiale di cui l’intera cultura è nutrita (Timpanaro rimproverava a Freud di aver abbandonato il materialismo-edonismo degli inizi per uno psicologismo misantropico ed estetizzante, e di aver corrotto il darwinismo sotteso a tutta la sua opera con i richiami di un "vitalismo" decadente e assai poco scientifico); si deve perseguire l’«elaborazione di una logica e di una grammatica dell’inconscio» che sia meno vaga e permissiva di quella sinora teorizzata.

Queste sono raccomandazioni che potrebbero suonare banali, se non fosse che la psicoanalisi a lungo le ha ritenute (e talvolta ancora le ritiene) improprie, non adeguate a una disciplina che non vuole piegarsi a canoni, seppur minimali, di razionalità, giacché è il concetto di razionalità stesso che essa mette in discussione.

Negli anni in cui Timpanaro scriveva le sue critiche a Freud, Carlo Ginzburg, appellandosi all’abduzione e invocando la metis come forma di intelligenza che ispira, insieme al cacciatore e allo stratega, ogni studioso che pratichi terreni incerti e complessi, traeva ben diverse conclusioni su un possibile incontro di psicoanalisi e filologia e, soprattutto, sulla tenibilità di un’idea monolitica, lontana dalle pratiche e dalle abilità (sovente non codificabili) umane, di razionalità.  E quello della razionalità, di che cosa voglia dire oggi essere "illuministi", è il tema informatore dell’interessante carteggio tra Timpanaro e il fine letterato Francesco Orlando (Sebastiano Timpanaro, Francesco Orlando, «Carteggio su Freud (1971-1977)», Scuola Normale Superiore, Pisa 2001, pagg. 126, s.i.p) che accompagna la gestazione e la prima apparizione del Lapsus.  Sono pagine ricche di pathos e di amenità intellettuale, dove si confrontano la tagliente vis polemica del "materialista-leopardiano", che non è facilmente disposto a rinunciare a soluzioni riduzioniste, e l’esigenza di chi cerca tra le pieghe dell’espressione poetica (ma anche sulla scorta dell’impronta che ‘la teoria critica’ francofortese ha dato all’incontro di marxismo e freudismo, della linguistica postsaussuriana e infine della "bi-logica" di Matte Blanco), una chiave di comprensione meno rigida di quella "scientista", seppur sempre vincolata a regole di scrupolosa analisi, oggettivazione e limpida argomentazione. «Forse siamo noi due – scriveva Orlando – gli ultimi illuministi sopravviventi: poi il buon seme andrà perduto … ».

Postato da Giuseppe

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